Poesia > Mario Sofia
MARIO SOFIA
Preghiera alla Rocca Salvatesta
Svegliati o Rocca che da gran momento
muta e sdegnosa sola te ne stai,
certo crucciata dal comportamento
dei figli tuoi che solidali mai
così dappoco e senza tormento
d’ogni pietà hanno perduto i rai.
Custode il cielo dell’intera valle
ti volle, fin da quando ci fu vita;
e tu per tanto proteggesti il calle
e vigilasti dalla mole ardita
su quella gente che senza le falle
d’oggi passò per la fugace gita.
Ora non ceda l’antica promessa,
né pera il vanto che il passato pone
alla memoria di lei e di te stessa.
Ruggisca ancora il pavido leone!
E imponga all’emigrante la recessa
lussuria dell’avitica magione.
Spinga a raccolta tutta la tua gente,
infonda ai cuor quella virtute fiera
perché l’apatico volga nel fremente
generator di impegno alla filiera,
che, se per sé non pare aver presente,
all’avvenire è certo gran miniera.
Destati dunque! Ascolta la preghiera!
Non c’è più tempo per la malattia
che della vita è giunta alla frontiera.
Oppure, poni fine all’agonia,
crollando e trascinando alla riviera
l’intera valle piena di follia.
Alla mia Rocca
Quando lontano mi confina il vento
che spietato sospinge la mia vita,
segnata sempre dal comportamento
di quanto devo e mai di ciò che posso,
spesso ripenso a te, mia Rocca ardita,
ch’alta t’innalzi sull’umano fosso.
Ti vedo ritta sopra la scoscesa
dei campi in cui vagavo giovinetto
e sul paesello che senza difesa
resta fidente ai piè della tua mole,
mentre gigante tu sostieni il tetto
vegliando come madre sulla prole.
E bramo l’ora della ripartenza,
mentre il pensiero corre imperioso
fin’a quel poggio dove l’apparenza
s’apre maestosa, col profumo intenso
delle ginestre, e all’alma dà riposo
cullandola nel verde dell’immenso.
“A casa! A casa!” Tu mi sproni ognora,
pungendo col timore della notte.
“Torna alla valle, che ti plasma ancora,
come una volta, e ti ridà valore.
Lascia l’affanno, le meschine lotte:
nelle radici sta riposto il cuore.”
Vicino a te io ristarò, prometto,
appena lo potrò, senza un indugio,
quando nell’urbe non sarò costretto
da ciò che devo, che mi fu dovuto.
Ma s’avverse vicende a tal rifugio
mi sottrarranno ancora, quando muto
sarà il mio lume, la progenie cara
mi porterà senz’altro al tuo cospetto
e all’ombra dei cipressi di Novara.
SOGNO
Dall’erto poggio del pietroso monte
rimiro, ansante, quell’avìto tetto
e la piazza, la strada e il lungo ponte
che mi videro un giorno giovanetto.
Trasfigurato il cuore va cercando
e ricercando per quella vanella
che comparisse, celeste comando,
della trascorsa gioventù la stella
dagli occhi neri e dai capelli d’oro.
E resto chissà quanto alle vedette,
mentre m’assale di ricordi un’orda:
sguardi, carezze, parole mai dette;
confusa nebbia nella mente ingorda.
- “Ti bramo e non m’appari, dolce amore.
Perché non torni a illuminar la via?”-
- “Corre la vita!” - Così passano l’ore
del sogno che l’aurora caccia via.
E sveglio il rimembrar scema il tesoro.