Quei pochi giorni a Sammasì, volavano, passano in un lampo nelle visite liturgiche ai luoghi dell’infanzia, nel ritrovarsi con le ultime persone care rimaste nel paese, nel ritorno nella stanza dove Santino creava e dipingeva le sue prime opere. Suo padre, con ancora negli occhi i segni di un dolore incancellabile, in quel momento era felice di accompagnarmi e di fare da guida nelle cose rimaste del figlio.
I suoi libri, i tubetti degli oli, le spatole, le fotografie, gli schizzi, i lavori rimasti incompiuti, i pastelli, le tempere, le sue poesie, i modellini di scarpe e la tavolozza erano ancora posati, e tenuti con amore dal padre, dove lui li aveva lasciati; mentre Giuseppe osservava i quadri scopriva sempre qualche particolare nuovo e sentiva ancora le parole dei discorsi fatti con Santino, levitavano nell’aria la sua presenza, il suo sorriso, la luce dei suoi occhi e s’espandeva l’eco lontana della vastità dei suoi sogni. Il cavalletto sembrava aver messo le radici di fronte alla finestra e scrutava oltre il fiume, verso la strada dei platani, quasi attendesse il suo ritorno, ma il velo di polvere sui bordi delle cornici, l’ossidarsi delle lamiere delle sculture, l’ingiallire dei fogli, lo spegnersi inarrestabile dei colori e l’ingrigire delle tele rivelavano il tempo che era passato, la cruda realtà della sua assenza e quanto sia delicato il fiore della vita.

( Il dipinto “Margherite“ è di Andrea Spano )