Poesia > Pippo Di Natale
PIPPO DI NATALE
Da “Spigolando” (Luglio 2009)
Pippo Di Natale è nato a Novara di Sicilia,
in Provincia di Messina, il 3/3/35. Vive a
Palermo, dove esercita anche la sua Musa.
Questa è la sua ottava raccolta di poesie
dopo: “Ricordi di un Dannato novarese”,
pubblicata nell’agosto 2003, “Uno sguardo
dal ponte” del dicembre 2003, “Nostalgie”
dell’agosto 2004, “Il campo di girasoli”
nel giugno 2005, “Fiori di malva” nel
giugno 2006, “Le prime luci della sera”
nel giugno 2007 e “Cristalli di Rocca” nel luglio 2008
Primi palpiti
Mi guardava
con gli occhi chiari
e limpidi
come la sua anima
ed una dolcezza indefinibile
mi pervadeva il cuore.
Era l’alito del venticello
in un giorno torrido,
uno squarcio azzurro
in un cielo fosco,
un sogno...
solo un sogno.
Nella casa dei morti
Un minuto di silenzio,
di riflessione,
di raccoglimento.
Un fiore, un lumino
ed un requiem, per dire
che li ricordiamo.
Quello che facciamo
sarà fatto da chi ci seguirà.
Deve esserci un anello
di congiunzione
tra il passato, il presente
ed il futuro...
finché su questa terra
ci sarà vita.
Il vento
S’è alzato il vento.
Arruffa i capelli,
accarezza, schiaffeggia.
Danzano le fronde,
i sambuchi e ricini –
che orlano muri di cinta
di campagne abbandonate.
Ora diventa pazzo.
Sbatte, con le sue folate
finestre e balconi,
mandando in frantumi
i vetri.
Spolvera lo sterrato.
Il cielo s’è pulito,
non l’aria.
In questo mondo il vento
può fare di tutto...
non può cancellare
dalla mente e dall’anima
il ricordo nostalgico
di giorni beati,
il primo amore.
È tornata la quiete,
i passeri sui tetti.
Il vento tornerà a spirare...
e per l’eternità.
Il primo amore, invece,
nasce in noi e muore
con noi.
Verso il crepuscolo
Mi ritrovo stanco
e stufo, quasi alla fine
del cammino terreno.
Si perdono, nel tempo,
le primavere, le calde
stagioni, i temporali,
i melanconici autunni –
che ho amato ed amo –
perché a me somiglianti.
Ricordo e rivivo giorni
e momenti che il tempo
a venire – breve o lungo
che sia – non potrà
regalarmi.
“Tu ti ricordi?”
Affacciata alla finestra
aspettavi che rincasassi
per sussurrarmi:
“sognami, com’io ti sogno.”
Un’aura soave mi sfiora.
E’ la mano di chi mi guarda
e benedice – da non so dove.
Cammino per le vanelle.
I muri delle case bisbigliano
qualcosa...
un motivetto, un nome.
Ancora un alito profumato
sul mio viso...
un’ombra si confonde
con le ombre della sera.
Due anni dopo (14/04/08)
Ora sei tra le fredde
braccia della madre Terra.
Non guardi più, sognante,
lontano, mentre un sorriso
si svela sulle tue labbra.
Non m’appari in sogno –
come nei primi giorni
dell’amaro addio.
Ti vedo e ti sento vicino
quando calco le accidentate
vanelle, le basole logorate
dell’antica piazza.
Dimmi, Michele –
Sei già nei cieli della luce,
della pace, dell’estasi
dell’anima?
A mio fratello Michele
+ 14/04/06
La Principessa
Un amico mi disse:
“porta una serenata
alla principessa”.
“Cantare per lei – risposi –
è tempo e fiato sprecato.
Canto e ricanto per chi
m’ha dato il cuore,
gli occhi, i pensieri
e m’ascolta felice.
Oggi m’ha detto:
“t’amo come nessuna
potrà amarti.”
A notte fonda, al chiarore
della luna e delle stelle,
le canterò:
amuri, amuri, amuri
e
canto pi tia
chi si a vita mia.
Prima di partire
L’estate era finita.
Si tornava a scuola,
lontano dalle mura
amiche.
Le ultime notti erano
“bianche”.
Si bivaccava sulla dolce
scalinata della chiesa,
oltre il ponte,
parlando di
fatti curiosi.
Si rideva...malinconicamente.
In lontananza la valle,
il mare.
“Il nostro è il paese
più bello del mondo.
Guardate che spettacolo.
Solo Dio poteva “pittare”
questo”.
disse uno di noi _
lasciammo il piazzale
intonando:
“E prima di partire
farò un giro in piazza,
saluto, saluto la ragazza
che piangerà per me”.
Ogni anno così...
Fino al diploma di maturità.
Meravigliosa creatura
Era il desiderio
del mio cuore,
averla...un sogno.
La seguivo, furtivamente,
ovunque andasse.
“Meravigliosa creatura”.
Come occhi aveva
due stelle del mattino;
per labbra due petali
di rosa;
un sorriso che scardinava
un cuore blindato e
giungeva nell’anima.
Volava alto e lontano.
Io, non avevo le ali.
Dall’antica rupe
Gli ultimi tiepidi raggi
sfiorano le tegole delle case.
Il sole se ne muore
dietro il monte.
Calano le ombre e tutto
avvolgono, in silenzio,
pure il cuore e l’anima.
Chi è già al crepuscolo
della vita, guarda – con
gli occhi pieni di pianto –
il tramonto.
Lentamente – appoggiandosi
al bastone, torna a casa.
S’accendono i lampioni
e le stelle nella notte blu.
Nell’aria qualche fischio,
la voce di una madre
che chiama il figlio.
Il piano, ora, è deserto.
S’illumina una finestra.
Un sospiro, una speranza
per un’anima in pena.
Quando
Quando avrò un po’ di tempo
“tutto per me”, tornerò nella
chiesetta sul monte – dove quella
voce sentii – prima aspra a sembrar
rimprovero, poi – una dolce armonia
di pace.
Sul pavimento della piccola navata
un riverbero di luce disegnò una
croce – senza l’effige di Cristo.
Mi inginocchiai e guardai
lassù, il cielo.
Non un trillo, un cinguettio.
Nel silenzio – solo il battito
del mio cuore.
Ho bisogno di quella voce!
Luna piena
L’ultima luna piena
del nostro amore
si nascose dietro una nube,
quando il bacio dell’addio
si perse nei nostri respiri.
Mi abbracciò, accarezzandomi
Il viso, poi , quasi correndo,
la vidi allontanare.
Un groppo alla gola,
un fiume di lacrime
inondò i miei occhi.
Io l’amavo...
Di più: la libertà.
Nel bosco
Più si allunga la linea
grigia della vita _
più è vicino l’ultimo passo.
La memoria, morbida creta,
pian piano s’è asciugata
e poco resta impresso...
nulla.
La fantasia, l’immaginazione
non sono più oasi verdi _
ma terre riarse.
Disdegna il cuore agitarsi
come in gioventù _ quando
palpitava rischiando
la fibrillazione.
L’amore era il pane quotidiano.
Ore è calmo come l’acqua
del lago alpestre, in cui si
specchiano gli alberi sempreverdi,
il cielo.
Non un rombo di motori,
gli urli delle sirene.
Solo il mormorio delle foglie,
il cinguettio armonioso
degli uccelli dalle livree colorate.
Seduto sulla panchina lignea,
dolcemente mi coglie il sonno _
solo _ con quello che mi resta.
Girovagando
Mi tornasti in mente
mentre guardavo, dall’alta
Batia, i tetti delle case
con tegole rosse rugginose,
il campanile con l’orologio –
lucente nel cielo scuro
dell’imbrunire –
ed il sole, morente, rivestiva
d’oro i muri delle case
appiccicate ai pendii
di Timpaforca e Mattarussa.
Quanta dolcezza nel cuore.
Che terra la mia terra!
“La vanella sonnecchiava
alla luce fioca dei lampioni.
Tacevano gli uccelli nei nidi.
Contemplavo la luna, eterna
pellegrina del cielo,
e con l’anima le parlavo
di te, di me, di noi
del nostro sogno...
che sogno restò.”
Una vita lontano da casa
non vale gli anni
della fanciullezza e della gioventù
vissuti nel borgo natio.
Un Mattino d’Autunno
Al bar Stancampiano – Notarbartolo
Una lunga linea grigia –
come una vita senza vita –
sotto un cielo nerastro ed umido,
povero di spiragli di luce,
del viso bianco della luna;
una notte senza sogni
ed il suono di chitarre e mandole.
Rombano – vomitati da navi traghetto –
i Tir – sull’asfalto che si colora
della luce gialla dei lampioni,
in fila, come i giorni della
nostra esistenza.
Spira una brezza che sa di mare
e di terra e ricorda gli autunni
vissuti nel borgo montano –
scolpito nella mente e nell’anima.
Si fa più chiaro il cielo,
alla marina.
Nell’aria l’aroma del caffè.
È un altro giorno:
uno di quelli che pare
non vogliano passare mai...
ma passano anonimi,
inutili.
Nostalgia e rimpianto
Non li vedrò né sentirò
mai più:
le lucciole, stelle notturne
sui prati verdi, palpitavano
una lucetta azzurra, ammaliando
gli innamorati,
i sentimentali;
i guizzi nell’aria pulita,
di farfalle colorate che
invadevano vicoli e strade,
per poi sparpagliarsi,
sperdersi;
i falò, sulle colline, accesi
da pastori e villeggianti
per preparare la mostarda
di fichidindia e mele cotogne;
le serenate germogliavano,
nelle notti di luna, sotto
i balconi e davanzali
delle innamorate;
le grida del banditore:
“curridi, curridi, curridi a piscaria
riveu tunnu, sauri e angiovi”.
Il ricordo svanisce...
forte e vivo è il rimpianto.
Dopo la pioggia
Il rombo dell’ultimo tuono
si perde oltre le colline.
La nebbia, a poco a poco,
si dirada e nitida appare
la rocca, la fiumara
dalle acque tumultuose
e torbide.
Quanta pioggia è caduta,
quanta tristezza umida
m’è scesa nell’anima!
Fumano le campagne,
i tetti delle case,
mentre l’iride s’inarca
tra due balze.
Gorgoglia l’acqua
nella canaletta di scolo,
nei tombini e scorre
a fondo valle.
Dicono che “passa e lava
tutto” – non l’anima
e la coscienza.
Le galline tornano
a razzolare nei vicoli,
i bambini giocano, vociando.
Canta il gallo sbattendo
le ali.
La vita riprende.
Sul filo d’acciaio,
steso tra due balconi,
c’è un passero solitario.