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NINO BELVEDERE
L’Edificiu
Giuseppe incominciò a ricordare, ma aveva la sensazione d’inoltrarsi in un paesaggio vasto, sconfinato, dimenticato e forse inesistente. All’inizio vagava invano in quel deserto della mente, ma pian piano percepì i colori intensi della primavera, l’odore delicato delle ginestre e quello forte dell’origano appena raccolto, poi ancora gli giunse il vociare caotico di bambini che giocavano nei vicoli polverosi: la sua memoria all’istante ebbe un sussulto, si risvegliò e gli apparve Sperlinga.
Quell’anno lontano nel paese accadevano cose straordinarie e inconsuete: la gente era incredula; già prima di ferragosto, mentre la vallata intera si vestiva a festa, le nuvole s’inchiodarono al soffitto del cielo e per settimane, scaricarono piogge spaventose mai viste da almeno cinquant’anni; quando non pioveva brizzillijava e acquazzijava juornu e nuotti, giorno e notte a non finire. Ma quanta, quanta acqua… Il quindici d’agosto, in fretta e furia, si riuscì a fare la processione dell’Assunta ma, appena riportarono la vara con la statua in chiesa, diluviò e nelle strade restarono solo quattro gatti di persone e i gatti, i veri gatti. Si scatenò la tramontana che staccò le tegole, alzò pruvuazzi e fece sbattere contro i muri delle case, trascinandoli per vicoli e vanelle, vasi, ramazze e fusti, ma anche i ceppi e le giarre posate sui poggioli. Comparve in anticipo un autunno prepotente e divorò quel che restava dell’estate.
La gente diceva che il tempo era impazzito. Ed era vero: quell’anno la pioggia riempiva i bivieri e i pozzi, intasava i canali dentro e fuori del paese di un liquido rossastro e limaccioso che in molti punti si riversava nelle strade trasformandole in pantani; dovunque si svolgesse lo sguardo si scorgeva un paesaggio trubuadu pieno di fanghiglia e un orizzonte indistinto, infradiciato e nereggiante. Il torrente a valle s’ingrossò e straripando si portò via il nostro campetto di pallone vicino all’abbazia, le vigne, gli orti e i giardini di aranci, nespoli e limoni.
Sull’isola, alcuni giorni dopo un’eclisse lunare, ci fu il terremoto che a Sperlinga fece oscillare gli oggetti e portò tanta paura, ma poco lontano rase al suolo decine e decine di antichi paesi: tutte le case furono polverizzate e ci fu un’ecatombe di morti. In quei giorni il sole emanava una luce pallida, fredda e spettrale. La valle era sconsquassata dal continuo sferragliare delle pale degli elicotteri che portavano aiuti nella zona della disgrazia. Le vecchiette accartocciate sulle soglie delle case pregavano e mormoravano: - Gìesu, Gìesu, ievi a finri du munnu, a finri du munnu.
Sembrava davvero giunto il tempo dell’Apocalisse: nei giorni di vento i rami degli alberi volavano da un orto all’altro passando sopra i tetti delle case. Anche gli eucalipti a lato dell’edificio scolastico furono sradicati come fuscelli e scaraventati nel burrone, lasciando quel posto spoglio e desolato. L’edificio delle scuole, per noi era l’edificiu, o meglio, l’Edificiu! Siccome nel paese non esisteva una vera piazza, la gente s’incontrava nello spiazzo polveroso circostante le scuole; proprio lì convergevano le vanelle dei tanti quartieri arroccati più a monte e lì palpitava il cuore del paese: c’erano la nuova chiesa, la fontana, la fermata della corriere, il passeggio dei giovani sino alle rupi di San Basilio e il vallone che, purtroppo, funzionava da immondezzaio. E vicino c’era il nuovo bar della ‘zi Rusaja. Quello della ‘zi Carmera, l’antico bar con ancora impregnato alle pareti e al bancone l’odore acre dei lumè a petrolio, bazzicato soprattutto dalle vecchie generazioni, era poco lontano, vicino al lavatoio pubblico, ‘o Ruggiu. Il nuovo bar, lindo e colorato, aveva invece l’inebriante profumo del futuro, era l’emblema della civiltà che finalmente, dopo tanto attendere, era arrivata, dirompente come un uragano, nel nostro paese, modificando abitudini cristallizzate nel tempo. A sinistra dell’ingresso, vicino alla finestra in alto c’era il primo televisore del paese e nell’angolo di fronte nascosto dal bancone c’era l’unico telefono che ci teneva in contatto con l’esterno, lì arrivavano e da lì partivano le telefonate con tutti gli emigranti sparpagliati in Svizzera, Germania, America e Canada; in quel piccolo angolo pulsava forte il nostro cuore, l’anima, il respiro, di tutto un paese, e la ‘zì Rusaja era la custode premurosa di tutto questo, aveva sempre, in ogni situazione, tanta pazienza e la parola giusta per tutti; inconsapevolmente, ma con naturalezza, era la mamma del paese, e come una mamma, svolgeva quel ruolo come solo una mamma sa fare. Tutti ricordano ancora con gratitudine quando lei improvvisamente usciva dal bar attraversava lo stradone e a pieni polmoni con tutto il fiato che aveva in gola e nel suo esile corpo chiamava i parenti degli emigrati.
Ultimamente lo stradone sotto casa era sempre più muto e melanconico, non c’era più quel passeggio senza tregua che partiva dalle scuole sino alla prima curva in fondo al paese, non c’era più quel festoso mormorio che si sentiva in ogni canto del paese, non c’era più quel vitale guazzabuglio dei suoi ragazzi che diveniva la sorgente della sua inesauribile energia. Quello non era più il posto che lei amava, quel paese a cui aveva donato l’anima e tutto il suo miglior tempo, così, in un umido e ventoso giorno di febbraio, la cara ‘zi Rusaja, aprendo le sue grandi ali, lievemente, ha spiccato il volo verso l’infinito.
All’Edificiu allora mancavano le panchine, è vero, ma non era un problema perché distesi accanto al muro delle scuole c’erano due lunghi tubi di cemento armato, abbandonati là anni prima quando nel paese avevano portato l’energia elettrica, o meglio, come diceva la gente con stupore: a luci, causi ruvvau a luci, a luci!
-E ua, e ua ch’a luci ruvvau, battimici i meu, battimici, battimici i meu.
E ora, e ora che la luce è arrivata, battiamo le mani; così si cantava la sera dell’inaugurazione: che festa ragazzi! Che festa! Che felicità inondava ogni angolo, ogni vicolo. Ogni casa. Il paese sembrava un presepe, non avrei mai più rivisto quell’entusiasmo che si sprigionava da ogni dove. Anche se nelle case non c’era ancora l’acqua, quante speranze, quante illusioni aveva portato l’arrivo dell’elettricità. I tubi, lucidi come un cristallo e tinti di tutti i colori, erano divenuti le panchine mentre lo spiazzo dell’Edificiu, oltre che campo di calcio, era diventato il teatro degli sperlinghesi; un grande proscenio, crocevia di vita, sogni e tragedie. Il posto leggendario. Il santuario dei ricordi: quanti segreti e quante storie conoscevano quei tubi, quanti mormorii avevano sentito nelle notti ventose e senza fine. Di buona mattina erano occupati dagli anziani, di notte erano riservati ai giovani. I tubi erano l’archivio storico del paese ma oggi, dopo un’onesta carriera, li anno eliminati facendoli ruzzolare nel vallone e li hanno sostituiti con delle fredde panchine di cemento, nel centro dello spiazzo polveroso, seguendo la moda, è stata costruita una spiazzo circolare di pietra e al centro hanno eretto un monumento, opera di un famoso artista.
Dopo le feste di ferragosto era sempre il momento della verità: gli abitanti di un tempo, finite le vacanze, ritornavano al lavoro nelle fabbriche del continente e il paese, svuotandosi, riacquistava il volto austero di sempre fatto di case con porte e finestre sbarrate e strade mute e solitarie. Si avvicinava settembre e gli abituali emigranti partivano, ma c’erano anche le nuove partenze; partire, espatriare, ormai da mezzo secolo non era più una tragedia: gli sperlinghesi ormai avevano fatto il callo ed erano sempre pronti a riempire le valige con il cuore gonfio, ma senza ombra di paura. Lasciare il paese era un fatto consueto, un rito, una cerimonia attesa come il battesimo o la prima comunione, una sorte che dall’inizio del secolo sparpagliava la gente in America, in Europa e in Australia. Una condanna senza appello. Ogni anno gli sperlinghesi che per generazioni erano vissuti confinati in quel piccolo universo e avevano parlato sempre e solo la stessa lingua, si mettevano in marcia a caccia di una vita migliore verso una realtà inaspettata, travolgente, che imponeva cambiamenti radicali nel modo di vivere, lavorare e pensare. Così le famiglie di Sperlinga si spezzavano, frantumandosi in tutto il mondo, mentre il paese, dissanguato dalla nuova emigrazione, tornava ad essere abitato solo da vecchi, donne e bambini, come ai tempi gloriosi della guerra.
(Questo brano è il mio “grazie” a Rosaria Trifiletti)