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SALVATORE PUGLISI
Carmela e altre novelle
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Le Novelle |
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CARMELA
L’EROINA DI NOVARA DI SICILIA
E ALTRE NOVELLE
Salvatore Puglisi
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Col più alto sentimento di affetto, e con la più grande spontaneità del cuore
Dedico
questo poverissimo lavoro a
Consolatina D’Andrea
Salvatore Puglisi
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Nato a Novara di Sicilia il 19 settembre del 1903, Salvatore Puglisi, di origini contadine, aveva i piedi ben piantati per terra ed era una persona colta e laboriosa che nella sua vita – come lui stesso sottolinea con orgoglio – per sbarcare il lunario si è adattato a parecchi mestieri, così, ad esempio, negli ultimi anni della sua breve esistenza a Messina faceva il sarto.
Dalle sue novelle affiora nettamente il suo grande rispetto per la vita e ogni essere umano, l’amore per la natura, ma soprattutto il suo era uno spirito curioso e aperto, che fa di lui un attento ricercatore. Con i suoi scritti densi di generosità e insegnamenti morali, ha lasciato un preziosa testimonianza sugli stenti e il duro destino delle genti nelle nostre campagne e nei villaggi dei secoli scorsi. Era molto religioso e conosceva sia i testi sacri che i classici e inoltre come confessa in una sua novella – Visioni di vita campestre- Puglisi venerava l’opera di Giovanni Verga, suo punto di riferimento e maestro. Tuttavia, la sua opera, a nostro parere, proprio per la forte adesione emotiva, è da accostare piuttosto al primo Pirandello, quello di Zia Michelina e di tante altre novelle attente alla condizione delle donne, dei perdenti, degli orfani e dei reietti, qual’era in Sicilia sino alla seconda guerra mondiale. Uno straordinario ritratto di personaggi indimenticabili, di miserie morali e pregiudizi, tutte storie coinvolgenti, vibranti di commossa partecipazione, pur nel fedele approccio realistico. Scrittore generoso, nella sua interessante prefazione tende per umiltà a sminuire, sino alla totale negazione, il suo ruolo letterario e artistico, noi invece, senza l’idea di volerlo catalogare, riteniamo di essere sulla strada giusta affermando che lui sia un autore importante, sensibile e coraggioso, metodico interprete del suo tempo, capace, anche adesso, di emozionare e di trasmettere una forte spiritualità. Perché Salvatore, scrittore eclettico, aveva un dono raro che non s’apprende dai maestri, e che neanche celebrati autori possiedono, quel quid intangibile che è celato nel guazzabuglio della propria anima: la grazia.
Qualcuno ha sostenuto che i libri, come ogni essere vivente, hanno un destino imprevedibile, anche Carmela e altre novelle non si sottrae a questa verità e la ripubblicazione sul web della sua opera a distanza di quasi ottanta anni darà, crediamo, una piena conferma delle qualità dello scrittore e dell’attualità delle sue novelle, e darà anche la misura dell’ingiustizia di averlo dimenticato, tutti, così a lungo.
Esprimendo un sentimento comune, anche se in ritardo, rendiamo un doveroso tributo alla sua opera e lo ringraziamo per averci lasciato un patrimonio artistico prezioso e di valore inestimabile per la nostra comunità.
Ma ora è arrivato il tempo di cedere la parola all’autore e a noi il piacere di immergerci nella lettura.
PUBBLICAZIONI
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Il 3 gennaio del 1931 pubblicava
“Carmela, l’eroina di Novara di Sicilia “
(Messina- Grafiche- LA COMMERCIALE-)
Successivamente “ Mario e Lucilla (Un giorno a Taormina ) “
AL LETTORE
Ogni pianta produce il suo frutto ed in rapporto alla coltivazione avutane, darà la qualità e la quantità del suo prodotto.
Io, per mia sventura, sono una pianta; una pianta umana, che non avuto la coltivazione desiderata se non quella necessaria che mi hanno potuto dedicare i miei cari genitori, cioè, da insegnarmi l’Amore verso Dio, e verso i miei simili; ed un modestissimo mestiere che possa procurarmi un tozzo di pane.
I miei cari genitori hanno fatto assai per me, di più non è stato e non è nelle loro forze.
Non per questo mi scoraggio; alla fin fine troverò sempre una via d’uscita…
Per mia fortuna o per mia disgrazia, non so quale sia delle due cose; io nella mia vita ho dovuto fare moltissimi mestieri, e non mi vergogno, come fanno certi, di dire che ho fatto i più umili lavori; anzi, per questo ne sono orgogliosissimo, perché solo così ho potuto conoscere assai della vera vita, e viverla anch’io sotto vari aspetti, e sono certo di aver imparato molte cose buone da essa. Perciò finché avrò buona salute, sarò sempre disposto a piegarmi serenamente a qualsiasi onesto lavoro che possa aiutarmi a guadagnare quel necessario per potere vivere.
Ogni buon cittadino, in qualche modo deve essere utile a sé, alla sua cara patria; alla sua grande e alla piccola famiglia; ai suoi simili.
Non credo di errare molto se dico:
Ogn’uno farà quel che può!
Tanto meno voglio credere che questa mia povera parola trovi il disprezzo o la derisione di qualcuno, trovandola a mia scusa perché ho fatto poco e male.
Se qualcuno c’è di questi, forse avrà ragione, ma io posso giurare che di più, non è nelle mie povere forze. Però lo spaventarmi a mettere in luce, e manifestare chiaramente i miei sentimenti, mi sembrerebbe una viltà come quella di un soldato che ha le sue poche cartucce, ed ha paura di spararli contro il nemico, sol perché riconosce che il suo avversario è più forte di lui.
Sarò accusato troppo audace volendomi scusare, prendendo a pretesto per esempio, che un architetto con i suoi molti studi sa fare la sua professione, sì; ma non per questo egli può proibire, ne disprezzare l’artefice d’una piccola e misera capanna campestre autore della quale, sarà stato di certo un povero contadino.
A me mi pare che questi meriterebbe un poco di ammirazione o di riconoscenza, perché egli ha saputo fare una cosa, sia pur povera ma che non l’ha appresa da nessuno; e ciò è un di più del suo compito.
La sua misera capanna, può giovare a molti in tempo di qualche uragano, o qualche freddura: Può giovare pure a qualche grande architetto che in altri tempi non l’ha saputa o non voluta apprezzare, anzi se ne ha riso al solo guardarla, se pure s’è degnato di guardarla.
Di me, dico che non sono uno scrittore, ne un professionista, tanto meno ancora , un genio ( ed il lettore se non se n’è accorto ancora, se ne accorgerà prestissimo).
Questi che presento, sono miseri descrizioni o aborti della mia povera fantasia, del mio carattere; (sebbene ciò non interessa a nessuno).
Ripeto: sono misere descrizioni che ho fatto nelle ore notturne, dopo il mio quotidiano lavoro, per -ammazzare un po’ la solitudine- prima di andarmene a dormire. Però posso affermare che non sono tutte cose inventate ma veramente successe.
Un giorno, rileggendoli, mi sorse improvvisamente l’idea, che se fossero letti da qualcuno, non gli avrebbero fatto male, anzi, io credo che dovrebbero far bene a molti; e questo pensiero mi spinse a farli leggere a quanti hanno la bontà d’interessarsi.
Mi sono ingannato?…
Se ciò fosse, non lo farò più: lo prometto! Però dico, che, se si leggeranno con l’intenzione di conoscere la verità dei fatti, ed interpretare il significato di essi, io credo che faranno bene; ma se Qualcheduno vorrebbe cercare nei miei poveri scritti qualche valore letterario od artistico, lo avverto fin da ora di rivolgersi altrove, perché ha sbagliato strada.
A me, resterà sempre il conforto che la mia coscienza non mi può rimproverare mai, mai, alcun male commesso volontariamente.
Le mie intenzioni sono state sempre di fare bene; e se ho fatto male, non l’ho fatto apposta.
Intanto voglio cullarmi nella consolante speranza che se il mio povero libro riuscirà a convertire al bene una, sia pure una sola persona traviata o che sta per traviarsi, io, mi stimerò contentissimo di sapere che i miei poveri scritti non sono stati del tutto inutili; e questa bella riuscita, sarebbe la più alta ricompensa che io possa desiderare.
Messina, 3 Gennaio 1931
Salvatore Puglisi
L'IRA
Non una novella, ma un brano folgorante di Puglisi che ci rivela da una parte il suo bagaglio spirituale e umano e dall’altra la capacità di comporre con quattro pennellate, alla maniera degli antichi, un quadro di grande forza morale.
L’ira è una bruttissima cosa.
Quando un uomo si lascia dominare da essa, non è più un uomo, ma uno schiavo, e, spesse volte, vittima di essa.
Accade che l’ira s’impadronisce di noi, magari giustamente, ma moltissime volte succede anche il contrario, sol perché una parola ci ha toccati, ci ha urtati ed offesi nei sentimenti dell’anima, noi ci adiriamo, ci offendiamo ed offendiamo. E’ vero che chiunque può adirarsi, ma non è vero che tutti si lasciano dominare dall’ira, anzi gli uomini più civili, gli animi più buoni fanno viceversa, cioè dominano anziché farsi dominare; e ciò è indizio di grande saviezza.
Beati coloro che sanno combattere l’ira. Infelici quegli altri che non voglion, poiché chi vuole, può combatterla.
Trionfare della collera – diceva un antico sapiente- è trionfare del più formidabile nemico.
Quante disgrazie son successe a cagione di questa tiranna!
Quanti bei giovani hanno perduto la loro libertà, la loro fiorente giovinezza, per un momento d’ira non combattuta!
Perciò, se vogliamo essere degni uomini, veramente Uomini nel vero senso della parola, non ci facciamo assalire e vincere dall’ira, ma siamo battaglieri e formidabili di essa:
Solo allora potremo dire che siamo Uomini, e faremo onore a noi stessi, alla nostra famiglia, al nostro paese.
MASTR'UGO
Sito archeologico tra i più importanti della Sicilia per la preziosità dei reperti rinvenuti, Sperlinga, nella tradizione popolare, invece, è sempre stato, vuoi per i suoi strapiombi a picco ( i bauzi), gli spettri che vagano nella notte (i cuosi tinti !), gli incantesimi, vuoi per il buoio degli ingrottamenti, luogo terrifico e affascinante nello stesso tempo. Questa straordinaria novella narrata con stile asciutto ed essenziale, avvicina alla fonte di quei miti che hanno accompagnato e arricchito la fantasia di chi ha avuto il privilegio di vivere l’infanzia a San Basilio.
Novara Sicilia conta nel suo comune diverse borgate, fra le quali c’è quella di San Basilio.
San Basilio è diviso in diversi gruppi di case sparse qua e là.
Tra il gruppo di San Basilio e quello di Vallancazza corre un chilometro di strada mulattiera. A metà di questa strada la mia mamma possiede un pezzetto di terra che gli toccò dalla pochissima eredità di mio nonno.
Vicino la nostra proprietà, su un piccolo promontorio, esistono ancora le rovine di una casa quasi diroccata, metà della quale è coperta alla meglio da tegole, e serve a tenervi dentro del foraggio.
L’altra metà è addirittura rovinata dal tempo e non si vedono passare che delle lucertole che stanno a godersi il sole, quando c’è. I muri, che si tengono appena appena in piedi, sono d’una costruzione rustica, a quando a quando coperti di edera.
Tutt’intorno si elevano grosse querce che circondano come in un bosco, queste rovine.
Un giorno, io e mio padre, trovandoci nei pressi, a causa di un forte acquazzone fummo costretti rifugiati in queste rovine. E, rannicchiati, al riparo, incominciammo a discorrere…
-Di che era questa casupola?- domandai. A chi apparteneva? Chi poteva mai abitare qui, in mezzo a questa solitudine?
Se vuoi -disse mio padre-ti racconterò chi l’abitava, e quale fine egli fece con la sua famiglia.
-Sì padre: se non vi dispiace! Raccontatemi ciò che si svolse in mezzo alle misere pareti di questa casa, oggi in rovina…
Mio padre pensò un momento, come per riordinare i ricordi della sua fanciullezza, poi prese a raccontare:
- In questa casa un tempo vi abitava un uomo chiamato da tutti: “Mastr’Ugo”.. Questi era un bel giovane intelligente e aveva un buon cuore. Tutti lo rispettavano. A tempo perduto faceva il calzolaio; ma per guadagnarsi da vivere faceva qualunque cosa gli capitasse.
Allora io ero un ragazzo. Potevo avere dodici anni circa; ma ricordo che lui aveva una moglie bellissima nativa di Montalbano di Elicona. E quando noi andavamo a casa sua, ella ci accarezzava, e sempre aveva qualche cosuccia da regalarci e delle parole piene di bontà da dirci.
Me la ricordo bella, slanciata, con una capigliatura color dell’oro, con due sopraciglia inarcate, ed un paio d’occhi pieni di dolcezza, color del cielo. Un nasino lungo ed affilato, con la bocca piccola e le labbra quasi rosse, schiudendosi continuamente ad un angelico sorriso, mettendo in mostra una fila di dentini bianchissimi e lucenti, ch’erano un piacere a vederli.
Si chiamava Vincenzina Saccà.
So che marito e moglie si amavano immensamente; ma ecco che un giorno la loro felicità coniugale venne distrutta dal cattivo germe della gelosia.
Mastr’Ugo s’era invaghito d’un’altra donna conosciuta nel paese col sopranome di Bugiarda.
Ben presto divennero amanti.
Tutte le sere, quando il marito rincasava a ora insolita,succedeva sempre una scenata di gelosia che andava a finire a legnate.
Ugo picchiava ben bene la moglie, alla quale non rimaneva nessun altro conforto che il solo pianto e la rassegnazione.
Un bel giorno del mese di Agosto, marito e moglie trasportavano dei covoni di grano nell’aia detta del “Piano” per trebbiarli. Ad un certo punto della strada c’era un piccolo burrone. Si dovevano salire degli scalini ripidissimi di un muro a secco. Lui salì con sveltezza e facilità, ma la moglie, Vincenzina, non ci riuscì, sia chè quello era un lavoro non adatto per lei, sia chè il marito, avendo ormai poca stima e rispetto per la moglie, l’avesse sottoposta e costretta a compiere qualunque lavoro. E, dato pure che lei era incinta, proprio negli ultimi giorni di gravidanza, come la poveretta cercò di salire quegli scalini, scivolò e cadde riversa, col gran fascio di grano che portava in testa, su di lei. La povera donna scoppiò in un pianto dirotto; non perché avesse il cuore pieno di dolore, ma per i maltrattamenti del marito…
La povera Vincenzina era vittima della perfidia della “Bugiarda”, la quale le aveva tolto il marito, l’affetto e la pace, cambiando quest’ultima in un inferno: e per questo fatto doveva soffrire delle soperchierie villane.
La debole creatura era nata e cresciuta in una casa abbastanza agiata, che l’avevano allevata come una camelia: cioè a dire, con tutti i riguardi che si possono usare specialmente verso una figlia unica. Vincenzina per vero amore era fuggita con Mastr’Ugo che poi l’aveva sposata. Ora invece si vedeva trattata in quel modo indegno, del quale ho già raccontato. Ora era costretta ai lavori manuali e alla miseria, perché lui portava tutto all’altra, e quando Vincenzina protestava, riceveva busse da orbi, ed insulti; e se in passato la lodava chè era la perfezione assoluta in fatto di ordine e di pulizia della casa, ora la disprezzava e le diceva che non sapeva fare nulla.
In ogni minima cosa, trovava sempre… il pelo nell’uovo. E la povera creatura molte volte taceva, timida e sottomessa, sotto una valanga di ingiusti rimproveri.
Quando ella sdrucciolò dallo scalino col fascio di grano sulla testa, suo marito, anziché andarla ad aiutare domandare se si fosse fatta male, procedere gentilmente ed affettuosamente verso di lei con buone maniere, le rivolse aspre parole, ingiurie ed insulti… E vedendo che lei non si poteva alzare, la voleva costringere con le busse, ruggendo come un animale: -Alzati canaglia, o ti faccio alzare per forza!!…
E così dicendo, le vibrò un gran calcio, con i suoi pesanti scarponi chiodati, colpendo la povera disgraziata al grembo, uccidendola sull’istante.
Il degenerato aveva commesso due delitti: aveva ucciso la propria sposa, e impedita la vita del suo stesso sangue, cioè di suo figlio.
A questa scena, ne successe un’altra piena di disperazione. L’assassino si gettò sul cadavere della moglie e si mise a piangere come un bambino, apparentemente pentito, ma in fondo al suo cuore, nessuno poteva sapere se la disperazione fosse stata dettata da un vero pentimento, suggerito dall’intimo della sua coscienza, oppure dall’errore commesso e dalla paura del giusto e meritato castigo della legge. Dopo, in pochi minuti, arrivarono sul luogo moltissime persone richiamate dalle esclamazioni disperate di lui.
Tutti in paese seppero che la morte di lei era stata causata dalla caduta dalla scaletta, ma v’erano due testimoni che se avessero voluto, avrebbero potuto dire come era andato il fatto. Questi si trovavano a pochi passi di distanza, ma per non fare arrestare lui, non dissero la verità.
L’uomo non fu punito dalla legge degli uomini, ma da quella di Dio…
Un anno dopo si trovava a mietere nella Piana di Catania. Tutto ad un tratto uscì in questa esclamazione: - A quest’ora a San Basilio hanno incominciato a maturare le ciliegie ed io me ne voglio andare. Starò a casa un giorno o due, e poi tornerò.
Senza stare tanto a riflettere o a pensarci due volte, si mise in cammino verso casa, non curandosi dei saggi consigli dei suoi compagni di lavoro, che gli dicevano: - Fare tutta questa strada a piedi per un giorno intero, ci sembra una bestialità.
Egli rispose: - Io faccio il piacer mio, e non quello degli altri!!
Fai pure!- gli risposero in coro i compagni, ironicamente…
Difatti egli andò a casa, nella quale ora aveva l’altra moglie che era pure incinta.
Arrivato a destinazione la moglie gli disse: - Ugo, ho proprio il desiderio di mangiare un piccione di rocca: guarda un po’, che razza di desiderio che abbiamo noi donne certe volte quando siamo gravide!…
Vorrei proprio un piccione di quelli che si trovano nei nidi di rocca!…
Mi viene questo desiderio, ed ho paura che mi assalga qualche dolore fisico, causato da questa voglia insoddisfatta.
Ebbene - rispose il marito- ora vado un po’ in campagna a raccogliere delle ciliegie, e poi andrò a vedere alle Rocce di Spilinga se posso prenderti un piccione.
No, Ugo ! Non andare a Spilinga, chè là le rocce sono pericolosissime!! Ci sono delle aperture e dei fori così grandi e profondi, che se si gettano delle pietre , si sente il rumore per un bel pezzo indistinto, sino a che si perde nel fondo…
Ma Mastr’Ugo, ormai convinto dal fatto che tutti gli altri anni era riucito sempre a pigliare i nidi in quei posti, non gli sembrò una imprudenza l’andarvi, specialmente ora che la sua consorte desiderava proprio il piccione di rocca…
Quindi rassicurando la moglie che non vi sarebbe andato, per non metterla in pensiero ed in una angosciosa attesa, si avviò per le sole ciliegie. Ma quando fu vicino alle rocce, la tentazione lo attirò, e senza porre tempo in mezzo, si tolse gli stivali e diede la scalata ad un precipizio che fa orrore al solo guardarlo…
Sotto questo precipizio c’è una voragine, della quale non se ne conosce il fondo. Però, ad un certo punto della voragine c’è come uno scalino, e fu proprio su questo piccolo ripiano che andò a finire Mastr’Ugo, perché avendo posto un piede in fallo precipitò, e cadde nel baratro…
Io,- disse mio padre- con questi occhi e coll’aiuto di un altro ragazzo, al chiaro delle torce, in pieno mezzogiorno, perché in quel posto la luce non v’entra mai, dopo averlo cercato un giorno e una notte, abbiamo trovato il cadavere di Mastr’Ugo, tutto insanguinato.
Gli animali selvatici gli avevano di già incominciato a mangiare il viso. Era uno spettacolo da far raccapriccio il vedere come si dovette tirare su, legato a delle funi!…
Egli era stato risparmiato dalla legge degli uomini…ma io, come tanti, dico: - Non sfuggì però a quella di Dio, il quale non vuole la morte delle sue creature, ma li punisce, se non altro, per dare esempio a chi rimane.
Ancora una volta si è confermato il vecchio e saggio proverbio, che dice: - Chi uccide morrà ucciso.
A questo punto ha fine la breve narrazione…
Ci accorgemmo che la pioggia era cessata; il sole era uscito di nuovo da dietro grossi nuvolosi e faceva filtrare qualche raggio di luce vivace fra i rami delle querce. Alzandoci per avviarci verso San Basilio, a casa nostra, demmo ancora uno sguardo a quelle rovine, mentre mio padre, di quando in quando ripeteva come a sé stesso:
Chi male fa, male riceverà !
Ciò che si semina si raccoglierà, e chi uccide morrà ucciso.
TEODORO
La più grande piaga sociale del secolo scorso era l’impressionante numero di orfani. Per favorire le adozioni lo stato elargiva un contributo economico così che famiglie senza scrupoli, pur di impossessarsi di quel danaro, adottavano gli orfanelli, ma in seguito, o li sfruttavano come bestie in lavori pesanti, o li riabbandonavano al loro destino. Era il crudele manifestarsi della miseria morale della povertà stessa. Il protagonista di questa vicenda spietata, antica ma attualissima, ambientata tra San Basilio e Messina, è una di queste piccole vittime innocenti. La densità della storia narrata, le sue stratificazioni e la ricchezza psicologica delle descrizioni, mescolate all’incontenibile partecipazione emotiva, rivelano un Puglisi che riversa nella scrittura tutta la sua sensibilità umana. Consegna così alla nostra coscienza una storia indimenticabile, commovente, da brividi e lacrime. Il racconto, nonostante il coinvolgimento personale, è lucido, meticoloso, dettagliato sino al punto di farci sentire il respiro e i palpiti del cuore del piccolo protagonista. Si tratta di una novella delicatissima, unica e irripetibile, che ci affida per sempre un personaggio fragilissimo, Teodoro, personificazione del dolore del mondo, un angelo, un uccellino sperduto che nel momento di arrendersi al male e alla fatica di vivere trova anche la forza e l’orgoglio di raccontare i suoi sogni di bambino, le speranze e la sua dolcissima idea della vita.
Molte fiate già pianser li figli
per la colpa del padre… Dante –Paradiso- Cap. VI |
Parte prima
Chi era Teodoro??…Nessuno lo sa, io voglio dire quel pochissimo che ne so. Lo conobbi da mia sorella, presso la quale egli faceva il servitorino. Era un ragazzetto d’un dodici anni, simpaticissimo, per non dir bello. Era svelto, scaltro, furbo ma lealissimo. Tutti gli volevamo bene, ed io mi ero tanto attaccato a lui di una affezione fraterna. Lo amavo, lo amavo, e godevo di stare a chiacchierare delle ore intere con lui, ammirando tutti i suoi modi di esprimersi, le sue birichinate. Era veramente simpatico con quei capelli arruffati, vestito alla contadina, quasi disordinato. Anch’egli prese ad amarmi più degli altri e me lo faceva notare chiaramente. Sono sicurissimo che si sarebbe fatto ammazzare per me, se ciò fosse stato necessario. Me ne accorgevo dal modo col quale ubbidiva appena gli accennavo un comando, o dal come s’interessava di me allorché gli esprimevo un desiderio egli faceva di tutto per contentarmi. Spesse volte mi faceva delle sorprese, felice della espressione della mia riconoscenza. Ricordo un giorno lo trovai seduto sull’aia che fantasticava, e non s’era accorto che io ero dietro di lui e l’osservavo, mentre se ne stava tenendo la fronte fra le mani e i gomiti sui ginocchi. Di quando in quando fissava lo sguardo nello spazio, tenendo leggermente il collo in avanti, come se volesse distinguere una cosa lontano. Dal suo atteggiamento capii benissimo che il fanciullo era assalito da dei pensieri dolorosi. Posandogli una mano sulla spalla, lo distolsi dal suo fantasticare, domandandogli amorevolmente di che genere fossero i suoi pensieri. Per la prima volta notai che egli cercava di nascondermi qualcosa che lo addolorava; ma, colto in flagrante, non ebbe pronta una risposta che fosse credibile, o convincente. Mi disse che sonnecchiava… ma la luminosità dei suoi begli occhini neri lo tradì più che non facesse la sua voce tremolante e velata di pianto.
Non c’era modo di rivelargli il suo dolore, ma infine, una sola parola lo fece scoppiare in lacrime. La parola mamma, gli toccò le corde del suo tenero e giovane cuore. Gli avevo detto così: - Teodoro, fai conto di vedere in me non un uomo, ma una donna, e che questa sia tua madre, e dimmi a che pensavi; perché qualunque cosa sia, io cercherò di fare in modo da poterti consolare come potrò. Mi hai detto tante volte che mi vuoi bene più di qualunque altra persona al mondo. Ma se tu mi nascondi i tuoi dolori, non sei sincero!… Se mi vuoi bene veramente, devi dirmi tutto!
-Pensavo, mi disse, a una cosa proprio sciocca…
-Perché sciocca?!
-Sì, sciocca… per coloro che la sentissero. Eppure è molto dolorosa per me, per quanto sembri una cosa da nulla .
-Allora è segno che non lo vuoi dire neanche a me?
-No…ma…vede…non saprei dirglielo, perché …pensavo a…tante cose confuse, che non erano chiare nelle mia mente, e perciò non saprei raccontargliele, e forse… anche lei…
-Che?! Anche lei si metterebbe a ridere!…
-Ma via, Teodoro! Oggi hai sfiducia anche in me, del tuo migliore amico!
Provati a raccontarmi la cosa come sai, e vedrai che io ti saprò ugualmente comprendere… Provati!
-Ecco, pensavo molte cose, ma più di tutto mi addolora il fatto che molte persone mi chiamino bastardo, per quanto sia vero che sono tale, ma, che colpa ne ho io? Ho forse voluto esserlo? Lei sa che ho soltanto la mamma adottiva, che venne a prendermi alla ruota per percepire la paga sopra di me, come si percepisce sopra un animale.
E appena incominciai ad essere un po’ grandetto, eccomi che mi mise a fare il servo; e capirà, che non tutti i padroni sono uguali. Ad esempio: quando ero al servizio del Bufolo, questi mi picchiava continuamente con il bastone, come se picchiasse un asino, senza alcuna compassione. Egli non picchiava mai i suoi figliuoli perché erano del suo sangue. Ora se io avessi avuto un padre non mi avrebbe picchiato così, ma all’occorrenza, lo avrebbe fatto moderatamente. Se avessi avuto la mamma, - ed ogni volta che pronunziava questa parola sospendeva un attimo il discorso, forse per cullarsi nelle sue immaginarie e dolcissime carezze, - invece di quella della mamma adottiva,…- riprendeva,- avrei avuto anch’io le carezze più dolci, le più sante e più pure; i baci più affettuosi che si possano immaginare. La mamma mi avrebbe mandato a scuola, ed anch’io avrei imparato a leggere e a scrivere; e poi, quando fossi diventato adulto, mi sarei arruolato nell’esercito e fare carriera, la quale mi piace tanto! Mentre, vivendo così, mi tocca fare il servo per tutta la vita, ed essere trattato come un animale, come un arnese da lavoro e non come un uomo simile a tutti gli altri.
- Certo!- Ripeté - sarò trattato come un arnese da lavoro, come una macchina che qualche volte si arresta per mancanza di grasso, come io manco di una necessaria educazione.
Arrivato a questo punto, il povero ragazzo tacque reclinando la testa sul petto, cercando di non farmi vedere le sue lacrime, il suo sconforto. Ed io volli fingere di non accorgermene, e ripresi a fargli coraggio con quelle parole più dolci, più affettuose che mi fu possibile di ritrovare in quel momento. Ma, in confidenza, ho dovuto avvedermi che non potei proseguire, poiché nonostante i miei vent’anni circa, non seppi padroneggiarmi. E due grosse lacrime vennero ad imperlare i miei occhi, sul principio quasi timorose, poi, via via libere calde scesero sulle mie gote.
Anche lui se ne accorse, e gli produssero quasi un po’ di rimorso, perché pensava essere stato lui la causa che mi aveva fatto piangere. Osservai con piacere, che dopo un momento egli mise fuori un lungo sospiro di sollievo, perché vedeva forse per la prima volta in vita sua un uomo che piangeva in suo dolore. Povero ragazzo!… Restammo a lungo seduti insieme sull’aia fantasticando sul caso; e solo quando fulgide tremolarono le prime stelle, ci svegliammo alla realtà. Qualche giorno dopo, ripartivo per la città, a riprendere, dopo due mesi d’interruzione, il mio lavoro. Mi ero recato al paese natale per vivere la vita spensierata, quell’aria libera e salubre della campagna.
Parte seconda
Orfanotrofio femminile Antoniano di Novara di Sicilia |
Non ricordo quanti mesi passarono prima ch’io ritornassi in paese. Teodoro non era più un servitorello presso mia sorella. La sua mamma adottiva, perché avida (e se vogliamo anche bisognosissima) di denaro, e quindi senza cuore, aveva riportato il ragazzo a servo presso ‘Ntoni L’ovaio a fare il pastorello. Presso a quest’uomo senza cuore, egli doveva sottostare ad un lavoro manuale, che solo un uomo adulto avrebbe potuto fare. E lo costringevano con le busse. Così scontava in tal modo l’aumento dello stipendio che riceveva la madre adottiva. Fu appunto mentr’era con ‘Ntoni che un giorno, strada facendo, per recarsi all’ovile, il povero Teodoro vide sbucare dalla macchina tre individui con la faccia atteggiata a malvagità e con gli occhi torvi. Gli intimarono di fermarsi, cosa che il povero fanciullo non si fece ripetere per la gran paura che ne provava. Gli rubarono i due pani ch’egli portava nella piccola bisaccia e lo minacciarono burberamente, che s’egli parlasse, un’altra volta lo ammazzavano!! Questa minaccia sbigottì vieppù il povero ragazzo, tanto che tremava tutte le volte che se ne ricordava. Quando Teodoruccio arrivò all’ovile, fu assalito da una forte febbre, che lo gettò come in letargo. Di quando in quando, mentre egli dormiva, carico di febbre, gridava: -No! No, non parlo!! Non lo dico a nessuno!!- E così dicendo, il poverino si metteva a piangere e a tremare da capo a piedi. Forse, nel sonno, riviveva il paurosissimo incontro, nella lucidità della forte febbre, rivedeva quei tre ceffi dagli occhiacci torvi e minacciosi. Non fu possibile, poi, basandoci sulle parole che lui diceva nel suo letargo, di fargli rivelare la cosa. Solo molto tempo dopo me lo confessò, quando andai a trovarlo in ospedale. Mi disse pure, che pochi giorni dopo di quel fatto, tuttavia malaticcio, ‘Ntoni lo costrinse pure a scendere in una cisterna per andare a prendere una pecora morta che v’era caduta dentro.
Il suo pessimo padrone lo legò con una lunga fune, e lo calò nell’acqua freddissima, da fargli gelare il sangue. Il ragazzetto non voleva scendere dentro, perché aveva paura. Pregò, pianse, scongiurò di non calarlo nella cisterna, ma il suo vigliacco padrone fu inesorabile e senza cuore. Sì, senza cuore; vigliacco, bestia feroce sotto forma umana, e poco è, perché anche la bestia più feroce che ci possa essere, si sarebbe commosso di fronte alla soave preghiera d’un essere innocente come Teodoro. Ma ‘Ntoni, con la sua gamba zoppa, non si commosse, incurante di tutto, lo bastonò prima, e lo legò e lo calò nella cisterna dopo. A simili sofferenze fisiche e spirituali, il povero Teodoro si ammalò e dopo una lunga, penosa, ed irrimediabile malattia trascorsa sopra un giaciglio in casa della sua mamma adottiva, fecero fare i documenti necessari e lo portarono all’ospedale Piemonte di Messina, nella medesima città dove lavoravo e lavoro io. Appreso che ebbi la notizia, comprai qualche cosa e volli andare a fargli visita. Dopo avere percorso un lungo corridoio, mi condussero nel reparto ove c’era l’ammalato ch’io desideravo vedere. In una cameretta piccola, piccola, v’erano tre letti con tre comodini e nulla più. Scorsi tre piccoli ammalati, ma ero ben lontano dall’immaginare che fra loro si trovasse anche Teodoro; poiché, con un rapido sguardo, avevo capito, dovevano essere solo dei piccoli bambini ammalati. Tenendo conto poi della lunghezza dei lettini, non ci potevano essere ammalati che dell’età di circa cinque o sei anni, e non dodici o tredici, quale era l’età di Teodoro. Ma la donna che mi accompagnava, vedendo che io desideravo d’essere accompagnato proprio dal mio ammalato, mi fece segno col dito verso uno dei tre piccoli letti. – Eccolo - disse interrogandomi allo stesso tempo: - Non ha detto che è un suo conoscente?- Sì! - affermai e più meravigliato che altro, mi diressi verso quel letticciolo, mentre un senso di tristezza invadeva l’animo mio nel vedere come era ridotto il mio piccolo ammalato.
Scossi leggermente il letticciolo chiamandolo sommessamente: - Teodoro!…Teodoro!… Era coricato sul lato destro, voltando così il viso dalla parte del muro; ma come si sentì chiamare, si scosse leggermente e si voltò dalla mia parte. Allora vidi che non era quel Teodoro che avevo conosciuto un anno prima: bello, forte e arruffato; ma notai che se non fossi stato sicuro che in quel letto c’era proprio lui, avrei sbagliato di certo, tanto era irriconoscibile. La lunga malattia lo aveva ridotto pallido, smunto, magrissimo. In lui non trovai altro d’immutato, che lo sguardo dolce, limpido e carezzevole; il resto…
- Teodoro! - lo chiamai con voce più dolce che mi fu possibile. – Come stai? Come ti senti?…
- Bene!… - mi rispose con un filo di voce, stendendomi la mano magrissima, ed atteggiando un angelico sorriso di piacere e di soddisfazione, al vedermi vicino al suo lettino. Non si stancava mai di guardarmi e di sorridere, dal piacere e dalla contentezza di avermi visto. Gli domandai che cosa avesse e dove si sentiva male, ma egli mi rispose che si sentiva bene. Il povero e piccolo martire voleva apparire ai miei occhi come sano. Quasi si vergognava di trovarsi coricato là, in quel, … chiamiamolo letto, ma in verità era una cuccia. Mi disse che nessuna delle persone a lui care era mai andato a trovarlo, neanche sua mamma…e che la mia presenza lo rendeva pazzo di gioia. Si sentì sollevato proprio di cuore parlandomi del passato, ricordandomi tutte le minime particolarità della vita vissuta insieme in campagna. Egli viveva col pensiero delle dolci rimembranze trascorse. Povero ragazzo!!!… non posso negare che egli non fosse ammalato di qualche malattia gravissima; basandomi sul racconto ch’egli mi fece.
Malattia causata dalle sofferenze fisiche e spirituali; ma più che altro, il povero Teodoro era ammalato di nostalgia; in due mesi di ospedale nessuno, nessuno era venuto a vederlo. Se avesse avuto una mamma o un padre, certamente non avrebbe fatto la fine che fece. E quando penso a queste cose… (perdonatemi o Dio mio!) maledico, odio, detesto e disprezzo quei mostri sotto sembianze umane che mettono al mondo esseri innocenti figli del loro impuro amore, per poi abbandonarli al loro destino, nel vortice delle avversità della vita, senza una mano che gli sappia difendere dal male, e guidarli sul retto cammino della vita.
Padri e madri vili!
Esseri disprezzabili!
Assassini!
Io, … secondo il mio parere li classifico per tali, poiché penso che anche gli animali più velenosi, più feroci e crudeli, non abbandonano i loro figli in mano di … nessuno! E sono – bestie! - E che dire allora di simili razze di uomini e di donne?! Quanta miseria, quanti dolori, quanti assassini, quanta delinquenza di meno vi sarebbe nel mondo, se ognuno guidasse i propri figli, onde farne uomini degni della loro patria, degni cittadini! Ma, purtroppo! Nel mondo ci sono centinaia di migliaia di codesti esseri infelici che non hanno provato, e non proveranno mai, il dolcissimo bacio materno e paterno, né le loro soavissime carezze, i loro affascinanti sorrisi, il loro grandissimo affetto, il loro santo insegnamento. Proprio le cose essenziali per formare veramente un uomo o una donna. Chi per sfortuna è stato privato di queste cure utilissime, ha veramente sentito la mancanza del miglior lato della vita; e la loro esistenza in questo modo è stata molto, ma molto più dura e più aspra di quella dei figli legittimi.
Essi dovranno lottare con tutte le loro forze, con tutte le loro energie, e quel che è peggio, dovranno combattere da soli, il che vuol dire, novanta probabilità su cento, che finiranno per essere sopraffatti dalle travolgenti avversità della vita. Ed il povero Teodoro fu una delle tante vittime di questo stato di cose. Egli ebbe pochissime consolazioni ed infinite amarezze. Morì all’ospedale Piemonte di Messina in un miserissimo letto, in mezzo ad altri compagni, forse sventurati come lui, che egli non conosceva. Come risulta dall’Atto di reperto n° 4 dell’anno 1912, il 27 del mese di marzo venne ricevuto al Brefotrofio del Grande Ospedale Civico di Messina il Palmizio Teodoro. Il quale venne affidato alla nutrice Bertolami Nunzia, figlia di Andrea Ferrara e moglie di Michele, domiciliata a Novara Sicilia (S. Basilio) Il Teodoro morì il 15 maggio dell’anno 1926. Morì senza vedere vicino al suo capezzale la faccia d’una persona che lo amasse, che lo consolasse, che dividesse il suo dolore. Morì come un uccellino sperduto che si dibatta nelle mani di un ragazzaccio senza cuore, invocando disperatamente il soccorso della sua straziata Mammina senza poterlo ottenere. E si dibatte, si dibatte finché poi piega leggermente la testolina da un lato e muore sopraffatto dal dolore. Così morendo desta un grande rimorso e un non lieve dolore nell’animo di quel ragazzaccio che lo fece morire così barbaramente. Sì, povero Teodoro! Tu facesti la fine dell’uccellino che ho accennato qui sopra…
Quando una settimana più tardi ritornai a farti vista, non ti trovai più, ed appresi la triste notizia della tua morte. Seppi che invocasti tantissime volte il mio nome, mentre io non ti udivo e lavoravo senza null’altro pensare. Andai all’ospedale con una speranza e né uscii con un grande dolore.
Non mi resta di te che un grande dolore e un immenso rimpianto, di non avere potuto consolare gli ultimi tuoi giorni di travagliata esistenza.
Ti scongiuro: concedimi il tuo perdono, in nome dell’affetto che ci legò in vita, perdona a tutti coloro che ti hanno fatto del male, non esclusi i tuoi sventurati genitori. Perdona tuo padre e tua madre che questo è il più sacrosanto doveri dei giusti. Del resto, credo che devono essere stati più disgraziati che colpevoli. Perdona loro, che Iddio pure li perdonerà. Perdona a tutti e, per ultimo me. Sia pace all’anima tua: ho pianto!…
Grazie a Italo Zopolo per l’opera – Works for childrens - People n°1
MAMMA
La maestria di un scrittore è la capacità di sapersi districare con naturalezza in varie tipologie narrative. Sempre attento alla condizione delle donne, attingendo alla sua sapienza e al suo candore, in questo brano sublime, Mamma, apparentemente semplice e banale, con la sua innata grazia, esprime la sua vena creativa in una forma limpida e impeccabile nella quale il sentimento diventa pura spiritualità.
E nel tuo dolor,solo e pensoso
Ricercherai la madre, e in queste braccia
Ascolterai la faccia:
Nel sen che mai non cangia, avrai riposo. Giuseppe Giusti |
La prima conoscenza che il neonato acquista appena vede la luce del mondo, appena incomincia ad affacciarsi sulla soglia di questa travagliata vita, è la mamma. Il primo nome che egli impara è Mamma. Nei momenti più dolorosi, più tristi più angosciosi, più disperati della nostra vita, un nome ci sale dl cuore alle labbra: Mamma. Chi è che dà al fragile neonato il suo dolce, primo alimento? La mamma!… Quale nome più dolce fiorisce sulle candide labbra d’un innocente? E a chi esso ricorre con maggior frequenza? E a chi chiama con più schietto, più puro, più insistente amore se non la mamma? L’occhio ed il cuore della mamma sanno scrutare e conoscere tutti i sentimenti e i desideri del figlio, sia esso, grande o piccolo. Essa lo aiuta, lo protegge, lo consiglia, lo difende, lo vendica. Per lui vive, respira, lavora, piange e sopporta ogni sorta di avversità o sofferenze. Il tormento più grave, diviene per essa dolce e giocondo. I primi passi, il primo insegnamento è dal la che il bimbo li apprende. Se egli con il suo ingenuo intuito s’accorge d’essere in pericolo, chi chiama a proteggerlo? La mamma! Se ha paura, dove si rifugia? A chi si aggrappa? Al seno della mamma!… Sotto il peso di un grande dolore, bimbi e bimbe, uomini e donne, vecchi e vecchie, un solo nome invochiamo, e con disperato ed accorato accento: O Mamma!!…… Quanta grandezza, quanta dolcezza, quanta armonia, quanta poesia, quanta grazia e bellezza racchiude in se questa sublime parola!… Se domandiamo ad un piccolo Innocentino: -A chi vuoi più bene?- Egli non vi risponde subito; sta impacciato per qualche minuto, fruga col pensiero nella sua testolina, cercando di eleggere col suo volto d’amore.
Quando la scelta è fatta, i suoi occhi d’angioletto brillano, vi guardano e vi sorridono, esprimendo la più grande, la più santa gioia, e gioioso, vi grida: -La mamma!!…- Nei momenti di tremende delusione, proprio quando vediamo crollare le nostre speranze, quando abbiamo bisogno di un vero affetto, di un vero e puro conforto, allora cerchiamo qualcuno che ci aiuti a riempire il vuoto che è nel nostro cuore e lo strazio che ci dilania l’anima, istintivamente ricorriamo col pensiero a colei che ci diede la vita. E le nostre labbra si schiuderanno per invocare il santo, il dolce, il consolatore nome di mamma…. Colei che volentieri sacrificherebbe fino l’ultima goccia del suo sangue, per procurare a noi, spesso ingrati figli, un attimo di gioia. Il cuore di una madre è il più grande dottore che possa esistere su questo mondo. Esso sa lenire colla medicina del suo grande affetto, con la sua grande bontà, i più strazianti dolori morali, e spesse volte anche fisici. Non c’è medico che possa uguagliarla. Dopo essere stato straziato con l’ingratitudine più insolente, umiliato con l’atto più vile, ferito col disprezzo più imperdonabile, irrigidito nel suo dolore, atterrito della sua colpa, con tutto ciò che può uccidere una madre, esso, cuore materno, risorge sempre dalle sue ceneri, rifiorisce sempre caldo, palpitante, generoso, appassionato, e gioisce delle nostre gioie, piange dei nostri dolori e dei nostri affanni. La madre ci segue sempre, ci è maestra e ci insegna ed illumina di sua luce il nostro arido cammino. Mamma!!
Veneriamo questa santa del nostro paradiso terrestre, questa Madonna della nostra vita. E quando la sera il nostro sguardo e il nostro pensiero si trasportano con dolce nostalgia verso la volta celeste trapunta di astri brillanti, ringraziamo l’Altissimo della sua immensa bontà, preghiamolo che ci lasci più a lungo la nostra cara mamma. Colei che fa dolci col suo sorriso, col suo affetto, le nostre lagrime cocenti. Preghiamo il Signore per la nostra mamma, affinché ci aumenti sempre più l’orgoglio di saperci carne della sua carne, spirito del suo spirito, vita della sua vita, anima della sua anima…Preghiamo il Signore perché ci lasci più a lungo la dolcezza del bacio materno, le carezze delle sue lievi e vellutate manine già conosciute fin da quando venne alla luce la nostra esistenza. Nessun dolore per quanto forte esso sia, può uguagliare quello che schianta il nostro cuore quando l’Angelo, che fu nostra mamma ci viene tolto. C’è un solo balsamo per questa ferita che sanguina: il dolce e nostalgico ricordo della mamma, che sarà sempre nel nostro cuore, all’apice dei nostri pensieri, nell’intimo dell’anima nostra. E bisogna essere buoni perché non soffra. Bisogna evitare il male perché ci benedica. A proposito di mamma, voglio citare qualche esempio fra gli innumerevoli che riempiono i libri. Ecco ciò che scrive Giuseppe Mazzini:
La famiglia è la patria del cuore. V’è un Angelo nella Famiglia che rende, con una misteriosa influenza di grazia, di dolcezza e d’amore, il compimento dei doveri meno arido, i dolori meno amari. Le sole gioie pure e non miste di tristezza che sia dato all’uomo di goder sulla Terra, sono, mercé quell’angiolo, le gioie della Famiglia. Chi non ha potuto, per fatalità di circostanze, vivere sotto l’ali dell’angiolo, la vita serena della famiglia, ha un ombra di mestizia stesa sull’anima, un vuoto, che nulla riempie nel core; ed io scrivo per voi queste pagine, lo so. Benedite Iddio che creava quell’Angiolo, o voi che avete le gioie e le consolazioni della famiglia. Non le tenetele in poco conto perché vi sembri di poter trovare altrove gioie più fervide o consolazioni più rapide ai vostri dolori. La famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti in essa, vi si estendono intorno lenti inavvertiti, ma tenaci e durevoli si come l’ellera intorno alla pianta: Vi seguono d’ora in ora; s’immedesimano taciti colla vostra vita. Voi spesso non li discernerete, poiché fanno parte di voi; ma quando li perdete, sentite un non so che d’intimo di necessario al vivere vi mancasse. Voi errate irrequieti e a disagio potete ancora procacciarvi brevi gioie o conforti; non il conforto supremo, la calma, la calma dell’onda sul lago, la calma del sonno della fiducia, del sonno che il bambino dorme sul seno materno. L’angelo della famiglia è la Donna. Madre, sposa, sorella, la donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffuso sulle sue fatiche, un riflesso sull’individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’Umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che basta ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire.
Il primo bacio materno insegna al bambino l’amore. Il primo santo bacio d’amica insegna a l’uomo la speranza, la fede nella vita; e l’amore e la fede creano il desiderio del meglio, la potenza di raggiungerlo a grado a grado; l’avvenire insomma, il cui simbolo vivente è il bambino, legame tra noi e le generazioni future. Per essa, la famiglia , col suo Mistero divino di riproduzione, accenna l’eternità…
Vi sono un infinità di esempi, ma contentiamoci almeno di conoscere quelli che sono più in vista, come la poesia del Giusti, del De Amicis ecc… La mamma è l’unica donna o persona, che possiamo contare sicuri sul suo affetto, nel suo perdono di qualsiasi mancanza.
Onora tuo padre e tua madre, affinché
i tuoi giorni siano prolungati sulla Terra, che
l’eterno Iddio tuo, ti da:
Quinto comandamento:
Antico testamento
Esodo 20, versetto 12
L’amore materno è il solo che non cambierà mai, mai , mai.
LA FINE DI UN PREPOTENTE
Spirito innovatore interessato alle storie estreme e alla sperimentazione, in questo brano, Puglisi, sembra liberarsi dalla gabbia verista e distaccarsi dai sacri canoni che hanno caratterizzato gran parte della sua opera. Si affaccia così a un nuovo orizzonte espressivo che gli permette di approdare a forme di racconto, a suo tempo, più moderne, realizzando questa storia, forse meno coinvolgente di altre, ma non per questo meno degna di attenzione, con personaggi e luoghi molto sfumati, più simbolici che concreti. Ecco quindi un ipotetico e remoto paese siciliano, un macellaio aggressivo, sopraffazione, carne, fegato, salsicce, costole e coltellacci: magnifici ingredienti per un cruento finale; un messaggio forte, forse una metafora del potere, o meglio, del suo abuso.
In un piccolo paese della Sicilia c’era un macellaio che si chiamava Don Anai. Quest’uomo era il vero tipo del macellaio; cioè, prepotente fino all’estremità dei capelli, e lo dimostra il fatto che sto per raccontare. In quel paese egli era il solo che vendeva la carne, e, per conseguenza, faceva come gli piaceva. Ai clienti non dava mai quella qualità di carne che desideravano, pur pagandola per quello che era; ma gli dava sempre l’opposto di quello che chiedevano. Per esempio: chi desiderava costole, gli dava fegato, e a chi domandava fegato dava costole. Ma perché questo?
–dirà uno che non sa la speculazione di Don Anai. Ecco la risposta: egli faceva questo, perché tutti i signori, ed in particolar modo i proprietari che desideravano essere serviti bene, dovevano dare la buona mano a Don Anai, ricompensandolo con dei regali. Difatti egli con la sua astuzia, ci era riuscito. Ho detto astuzia, ma è meglio dire prepotenza, poiché i clienti, dopo che egli aveva tagliato e pesato la carne non la prendevano erano guai! Gliela faceva prendere per forza! Poiché diceva:
- Non mi dovete lasciare la carne già tagliata e pesata per voi! Noi sappiamo che non è giusto fare così, ma Don Anai la ragionava in questo modo, e se fosse ancora vivo, troverebbe sbagliato il nostro ragionamento. I signori di quel paese, non badando al costo della carne per soddisfare il loro gusto, regalavano al macellaio, chi un po’ d’olio, chi del vino, del formaggio, del grano, olive ecc…, pur di essere serviti bene nonostante che pagassero profumatamente. Ora, Don Amai, aveva sott’occhio un signore che non gli aveva regalato mai nulla; per conseguenza pensò che meritava di essere trattato male alla prima occasione.
Difatti, un giorno il servo di quel tale andò dal macellaio e gli disse:
- Il mio padrone vuole un chilo di carne per fare un po’ di salsiccia, ma che sia fatta bene!
Don Anai fece orecchi da mercante… Alzatosi da sedere, filosoficamente e senza rispondere, si avvicinò alla carne appesa, e pavoneggiandosi tutto, cominciò a preparare un…(è grossa!) un chilo di fegato con polmone, e del grasso, per mandarlo a quel tale Signore. E’ naturale che quando il servo si vide porgere quella roba, rimase sbalordito, e disse:
- Ma siete sordo?! Io v’o detto, che il mio padrone vuole un chilo di carne per fare sal-sic-cia!!– e in così dire butta la carne che aveva in mano sul tavolo, con fare stizzito. Il macellaio che s’aspettava un atto simile per offendersi e attaccar briga, approfitta dell’occasione, e, in un batter d’occhio appiccicò sul viso del servo due potentissimi ceffoni, costringendolo a pagare e a portare la carne pesata per lui. Arrivato a casa, il servo racconta il fatto al padrone. Questi pensa un po’, e poi, con una calma invidiabile ordina al servo:
-Scendi nella cantina, prendi un barile da venticinque litri di vino del più buono e portalo al macellaio, dicendo che glielo mando io in regalo.
Lo sbalordimento del servo era al colmo!
Tanto che egli credeva che: o il suo padrone era diventato pazzo, oppure egli non avesse sentito bene l’ordine; perciò rimase lì impalato a bocca aperta. Sicché, il macellaio, con questo proposito di distribuire schiaffi a destra e a sinistra, e quando non ne aveva la bella occasione, la cercava con la lanterna, come Giuda cercò il suo maestro per tradirlo, egli faceva affarini. Ma ogni cosa a suo limite, ed un giorno per caso passò da quel paese un giovane forestiero, il quale andò a comprarsi la carne da Don Anai.
Questi, ormai abituato a fare il prepotente, agì come sempre aveva agito con gli altri; e quando il forestiero vide che ci stava pensando alla carne, contrariamente a come gliela aveva ordinata lui, gli parlò, naturalmente, un po’ arrabbiato, il che accecò d’ira il macellaio, che si sfogò a schiaffi anche sul forestiero, tanto da stordirlo. Ma pur stordito com’era, involontariamente si trovò vicino al banco, sul quale c’era un coltellaccio. E questi, fuori di sé dall’ira, lo prese e glielo infilò con tutto il manico nella grossa pancia, abbattendolo lì per terra come una carogna. Molta popolazione si raccolse intorno all’ucciso. Nel mentre si trovò a passare di là quel tale servo de signore della salsiccia, che per ordine del suo padrone gli aveva portato il vino, avvicinatosi alla folla seppe come era avvenuto l’omicidio.
Convinto, ed anche rassicurato che il prepotente non dava più schiaffi a nessuno, via, di corsa corse come una capra, se ne andò a raccontare, tutto gioioso, il fatto al suo padrone, che gli disse:
- Lo vedi, che avevo ragione io, quando ti mandai a portargli il vino?!-
- O bella! Che centra il vino con questo fatto?
- rispose il servo.
–
Centra, sì! Dimmi un po’: perché quando egli ti schiaffeggiò non l’uccidesti tu?-
- O bella!!- ripeté il servo
-Ma io non potevo mettermi a prendere la mia libertà per quell’imbecille di prepotente e lasciare i miei figli senza padre, e mia moglie senza sposo per andare a finire in galera!…-
-E allora, credi che se non lo hai fatto tu, l’avrei dovuto farlo io?
- No, nemmeno lei, che ha moglie, figli, mamma e papà. Ma soprattutto perché è onesto; e gli onesti non si devono imbrattare le mani col sangue d’un uomo, uccidendolo!…
-E allora, vedi, lo ha ucciso quello, che forse, anche lui è sempre stato un uomo onesto.
-Va bene, ma io non ci capisco cosa centra il vino in questo fatto!!…
-Il vino centra, perché gli ha fatto credere che, schiaffeggiando e questo e quello, potesse arricchirsi, cavandosela sempre liscia. Ma invece non poteva essere sempre così, perché non era giusto, e la giustizia, presto o tardi viene, come è venuta per quel prepotente, che nel cammino della sua vita ha trovato finalmente un uomo che non ha saputo e voluto rassegnarsi a tenersi le busse, come tanti avevano fatto, e glielo ha fatto pagare con la vita. E’ rattristante che abbia dovuto morire in quel modo, perché, per colpa sua s’è dovuto perdere anche l’altro, e forse anche un’altra famiglia che lo amava teneramente, si perde nella miseria… Perciò, guerra alla prepotenza se vogliamo essere buoni cittadini, buoni figli e buoni sposi.
Malvina
Con la consueta delicatezza e passione Puglisi ci svela, parola dopo parola, il dramma di Malvina, una giovane sposa che attende con la figlia in grembo il ritorno del marito. Ma il padre delle sua creatura, inghiottito dalle fauci della Grande Guerra, non varcherà lo Stretto di Messina. Malvina, abbandonata anche dai suoi parenti, si trova sola in una città ferita, affamata e sorda; per sopravvivere, forse, il destino le ha riservato la sola possibilità di immolarsi nella pratica di un mestiere antico quanto il mondo.
PRIMA PARTE
Se domandiamo a una persona qualsiasi come considera la donna traviata e meretrice, questi ci risponderà di certo che è un pezzo di cencio calpestato da tutti e che non vale la pena di parlarne.
Se la medesima domanda la faremo ad un prelato, quest’altro, possibilmente andrà all’esagerazione della cosa, dando in esclamazioni spiritate, ed incomincerà a farsi ripetutamente il segno della croce, come se questa donna fosse il diavolo in persona.
Eppure non bisogna giudicare sempre secondo l’apparenza, perché il più delle volte quasi tutti cadiamo in gravissimi errori.
Se noi dovessimo interessarci di conoscere il passato di queste donne, sono sicurissimo che troveremo per ognuna di esse una dolorosa storia; una “Via Crucis“ sulla quale sono state attirate dalla mano invisibile e perditrice del beffardo destino, o dalla viltà dei perversi seduttori.
Questi hanno abusato della debolezza della donna, della sua miseria, della ragione della forza che hanno esercitata da padroni sopra di esse. E perciò diremo che queste donne sono più disgraziate che colpevoli.
Alla donna basta una caduta sola, fatta sul primo gradino d’una scala infame, per poi ad uno ad uno scenderli tutti, trascinata da un potere misterioso dai lunghi ed invisibili artigli del genio del male.
Ai quali, molto raramente essa può sfuggire.
Sì, essa li scende tutti, ad uno ad uno per andare poi a finire nel fango, ed infine precipitare a capo fitto nei più tremendi abissi della perdizione, qualche volta al delitto, il quale infine diventa per loro l’ultima risorsa della loro infelice e disprezzata vita.
E noi uomini che godiamo un tenore di vita migliore, ed il privilegio di non portare alcun segno o traccia sul nostro corpo, della nostra corruzione, e se le incontriamo fuori, le disprezziamo e le sfuggiamo, perché ci sentiamo persone “d’Onore”.
Mentre poi, quando le tenebre avvolgono il creato, allora noi usciamo dalla tana come fa il lupo ed andiamo in cerca della preda...
Vergogna!..
Solo nelle tenebre ci avviciniamo ad esse, ma, non per far loro del bene (ciò che avremmo dovuto fare), ma per il nostro particolare ed egoistico. solo allora non ci vergogniamo di avvicinarle, e molte volte le mettiamo sull’altare dell’adorazione e le veneriamo come cose sacre. Ma ciò non lo facciamo di certo con fine umanitario di compassione, ma col vile desiderio della possessione della carne impura. Mentre, forse, abbiamo dimenticato a casa nostra una buona, e direi anche una santa creatura, (la nostra sposa), che veramente meriterebbe di essere amata nel vero senso della parola.
Quando poi rientriamo in casa, non abbiamo per lei, che parole brutte, d’insulti e di scherno. Osando pure di levare su di essa la nostra vile mano percotitrice; arriviamo fino al punto di scacciarla di casa per farne, in questo caso, una prostituta per necessità. E poi, quando andiamo nel postribolo in cerca di piacere e d’amore, comprato col vile prezzo del denaro, non pensiamo neanche lontanamente, che là dentro ci possono essere delle vittime di questo genere di povere disgraziate!...
Allora, là dentro, non ci vergogniamo più! In questo caso, tutto il nostro stupido orgoglio cessa, per dare libero il posto alla corruzione che c’invade il corpo ed il cuore... In questi luoghi maledetti dimentichiamo tutte le cose più sante! Dimentichiamo Dio, i Santi, la Mamma, le sorelle, la sposa, i figli; dimentichiamo pure il tanto decantato “Onore”, e ci gettiamo a rotta-di-collo, nel volgare e peccaminoso piacere; per poi il giorno seguente, alla luce del nuovo giorno, ed alla vista di altre persone, sfuggire e vergognarci di esse, se c’incontriamo con delle donne traviate.
Perché facciamo ciò!?
Vuol dire che la nostra ragione in quel momento, ci fa comprendere che è giusto che sia così. Ma allora perché questa vergogna non la sentiamo sempre di notte e di giorno? Perché riconosciamo la giusta ragione, e poi quando non ci conviene fingiamo di non ricordarla più? se una donna è perduta, di chi è generalmente la colpa più grave? Nostra!! E’ nostra perché siamo stati noi, assaliti dalla libidine bestiale,non dominata più dalla nostra ragione, che di una vergine o di una sposa ne abbiamo fatto una prostituta...
E’ nostra perché siamo stati noi a farla scendere al primo gradino della scala infame della perdizione. E basta aver disceso il primo gradino, per poi scenderli tutti ad uno ad uno, senza coscienza di quel che uno fa. Poi davanti a una donna che si trova al primo stadio del suo abbandono, due vie le si parano dinanzi:
O il suicidio, o la prostituzione...
Due vie, una più stolta e più orrida dell’altra, ma pure la necessità o la perversione degli uomini, costringe alla povera disgraziata, di abbracciare... Quanto sarebbe più bello, più giusto, più santo il non disprezzarle, ma neppure farne delle prostitute! Quanto sarebbe più giusto non prostituire mai la vergine, se non in casi eccezionali, quando si ha la propria coscienza e la vera e giusta intenzione di riparare al male fatto, facendola nostra legittima sposa davanti alla legge degli uomini e alla testimonianza di Dio, il quale benedirà sicuramente la nostra unione! Se così fosse, non ci sarebbe il traviamento che c’è nelle donne e negli uomini, sebbene di qualità diverse l’uno e gli altri. Se io potessi gridare al mondo direi: O uomini sposati, fuggite sempre la corruzione, e amate immensamente le vostre spose, e più voi le amerete, più sentirete il bisogno di amarle, che in tal misura ne sarete ricambiati. Ed ogni dolore troverà il modo di essere lenito.
In ogni scoraggiamento si troverà il dovuto sostegno ed incoraggiamento. Ogni amarezza troverà il suo dolce balsamo. In ogni battaglia della vita ci ritroveremo sempre sinceri e sicuri alleati. O giovani celibi! Se potete farne a meno della donna è meglio, ma se vi sentite soli ed avete bisogno di amore, sposatevi e amate immensamente la vostra donna, cioè la vostra sposa. Amate solo lei e nessun’altra dello stesso amore. Non amate, non amiamo mai, mai, la sposa di altri...
SECONDA PARTE
Non tocchiamo ciò che non è nostro, e non facciamo agli altri ciò che noi non vorremmo che gli altri facessero a noi, e così facendo, saremo felici. E se il rosaio della vita ci offrirà le sue spine, non mancherà di certo a regalarci pure le sue belle e profumate rose. Ma pure quando ci offrirà le spine, non le sentiremo molto pungenti, perché nell’amore troveremo un balsamo di oblio. L’amore sa rimarginare le più sanguinanti ferite; in esso ci si assopisce, per non risvegliarci che al vero, al bello e al giusto.
Vorrei dire pure alle donne belle, gentili, buone e virtuose, che pensassero bene prima di concedere la loro mano ad un uomo; di riflettere bene sopra la scelta; di non sposare mai un uomo che non sentono di amare. Nessuna potenza umana deve e può costringerle, sia pure a costo della loro propria vita. Delle due cose è preferibile la morte. Ma quando la scelta è stata fatta, oltre a un obbligo, è un sacrosanto dovere amare il proprio sposo, perché l’uomo più si vede più amato, più ama, sicuramente e costantemente, e non ha alcun motivo di cercare altrove gioie fuggevoli quando la sposa gli sa dare quelle durevoli.
La sposa non deve tradire il marito, per non dargli il giusto motivo di scacciarla dal tetto coniugale per poi andare a perdersi nel fango. Tutto l’avvenire d’un uomo ammogliato, sta nelle mani della propria sposa. Se questa non lo saprà custodire, tutto sarà finito, tutto sarà rovina. Però chi ci perde di più, è sempre la donna…
E’ vero che essa è guardata, ammirata e corteggiata da tutti, ma solamente fin che è bella e giovane; ma quando arriva ad essere sul declinare degli anni, non sarà più guardata da nessuno, se non con disprezzo. Essa ne porterà il rimorso, e i figli la colpa e le conseguenze degli errori della mamma. Dovranno arrossire davanti agli uomini, senza che ne abbiano colpa alcuna. Essi saranno mostrati a dito come la loro madre. ( Ed io ne conosco molti di questi sventurati ). E’ pur vero che l’uomo deve difendere la donna ma questa deve essere più che mai degna di questa protezione. Essa deve essere il faro di ogni onestà, l’ispiratrice di ogni cosa bella, di ogni nobile atto dell’uomo.
L’uomo deve essere il maestro e non il discepolo della donna. In una parola, il marito e la moglie, devono essere due sorgenti che si congiungono in un’unica fonte, per scaturire poi e immedesimarsi in una sola persona, onde poter soddisfare con più sazietà la loro sete del loro amore. Perché se queste sorgenti prendono vie diverse, le loro forze anziché raddoppiarsi nell’unità del loro essere, si affievoliranno fino all’estremo, fino a che moriranno addirittura nella loro debole solitudine. Ed in questo caso finirà la pace fra loro e prenderà gagliardo possesso dell’inferno in casa loro. E non è improbabile che non nasca in loro il traviamento. Io ho voluto interrogare molte meretrici intorno al come e perché della loro fine nella loro condizione, ma non tutte me l’hanno voluto dire. La maggior parte di esse m’hanno risposto pressappoco così: - A che scopo raccontare il perché sono giunta così in basso nel mondo? Tanto… a noi non ci crede nessuno, e se pur qualcuno ci credesse!?…sarebbe lo stesso: poiché nessuno ci comprenderebbe- Ricordo che una disse: - Ebbene, dal momento che lei me lo domanda ed insiste con tutta cotesta affabilità, cosa veramente strana per noi, e che in lei vedo un uomo un po’ raro a trovarsene dello stesso stampo, in quattro parole l’accontenterò…
La mia storia è un po’ lunga e tanto non vale la pena di raccontarla: del resto non commuoverà nessuno. Le donne della nostra condizione meritano disprezzo e non compassione…
Mi chiamo Malvina: Sono messinese, figlia di un professore in belle lettere. Ho quattro fratelli ed una sorella. Di fronte a casa mia abitava un giovane studente ginnasiale: Era bello, gentile ma molto più povero di noi. C’innamorammo uno dell’altra: mio padre e i miei fratelli si mostrarono rigidissimi riguardo al consenso della nostra unione. Mamma non ne ho… disse, e a questa parola tacque qualche momento, perché era sul punto di mettersi a piangere, ma non pianse: Poi riprese: la mamma m’era morta due anni prima in un incidente che mai si sarebbe potuto immaginare. Era affacciata ed appoggiata alla ringhiera del balcone e ad un tratto precipitò nel vuoto insieme alla balconata. Se avessi avuto la mamma, forse… non sarei quella che sono…
Con Arturo, così si chiamava il mio fidanzato, ci amammo segretamente; poi ce ne fuggimmo, andandocene a Napoli. Dopo due mesi scoppiò la grande guerra, ed Arturo fu chiamato come tutti i giovani a servire e difendere la Patria. Egli fu destinato nel corpo dei bersaglieri: morì da eroe col grado di sottotenente. Io rimasi sola, abbandonata e incinta, in una grande città… Scrissi e domandai perdono ai miei, ma furono inesorabili, con il cuore più duro della pietra. Nata e cresciuta in una casa agiata, non avevo imparato nessun mestiere, perciò mi trovai a contatto con la miseria e con la fame.
Misi da parte il mio orgoglio e con mio acerbo dolore in cuore mi misi a cercare qualsiasi lavoro che mi fosse capitato; e dopo tanto peregrinare, finalmente trovai un posto da governante. Ma ci durai ben poco, perché appena seppero ch’ero incinta mi licenziarono. Così mi trovai di nuovo nel vortice del mondo senza alcuna speranza di miglioramento. I patimenti furono troppo, finchè caddi ammalata, e per miracolo entrai in un ospedale, ove stetti parecchi mesi. Fui sul punto di morire, ma disgraziatamente per me, guarii…
Ho maledetto la morte, che mi risparmiò per farmi soffrire di più. Nel medesimo ospedale misi alla luce una bella bambina, sulla quale avevo concentrato tutto il mio affetto e la mia forza di vivere, ma anche questo conforto mi venne a mancare, poiché la bambina morì. La piansi come sa piangere una mamma che ha nessun’altro conforto al mondo, ma oggi riconosco che la sua morte fu pel suo meglio, poiché un giorno avrebbe dovuto arrossire della sua mamma! Povera creatura! Tentai di suicidarmi, ma se ne accorsero le infermiere e mi impedirono di morire… Per trovare un po’ di rassegnazione, decisi di far domanda, e andarmene come dama della Croce Rossa: la domanda venne subito accolta. Mi feci mandare sempre vicino la prima linea di combattimento, nei piccoli ospedali di pronto soccorso, sperando che ivi avrei trovata la morte in qualche scoppio di granata; ma anche questa speranza si risolse in una delusione.
Grazie a Silvia Zopolo per il dipinto