Narrativa > Armando Maglio
Ritorno a casa
Introduzione di Antonino Belvedere |
Agosto 1977 - Love is Blue |
Primo giorno |
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__o _`\ <,_ (_)/ (_) km Produzioni personali: - cruciverba - sudoku - ruzzle solver The dream ! |
Negli anni settanta c’era un grande fermento intellettuale e spirituale che portava le nuove generazioni per le strade del mondo a esplorare nuove possibilità esistenziali. In treno, in autostop e altri mezzi, moltitudini di giovani si recavano in India, Europa, Usa e in ogni altra parte del mondo. Partire, inseguire sogni e speranze, ecco cosa era importante. Anche Armando Maglio è pronto a sfidare la strada per realizzare il suo sogno.
A cavallo della sua fedele bicicletta e della mente, andando controcorrente, compie un percorso originale verso sud alla scoperta di sè stesso e delle sue origini. Percorre tutto lo stivale scoprendo la nostra penisola. Ma il suo è in particolare un viaggio iniziatico a ritroso nel tempo, un ritorno a casa nella sua Novara. In questo diario personale, libero da pretese linguistiche, ci racconta con una scrittura precisa ed essenziale, come il ritmo delle sue pedalate, gli attimi e le emozioni indimenticabili di quell’avventura giovanile.
(nb)
Agosto 1977
Il 2 luglio scorso avevo ormai la certezza di portare a termine
la traversata Domodossola-Sicilia che programmavo da un paio
d'anni. Quel giorno lo spauracchio del Sempione versante svizzero
non era più tale: raggiungevo il Passo in scioltezza pur immerso
nel forte sole delle Alpi e non esitavo a tuffarmi in
discesa verso l'Italia.
In forma quasi perfetta ero certo delle mie possibilità.
L'ultimo test, la passeggiata a Zermatt con Giuseppe, era stata una conferma.
Mancava un mese alla partenza e potevo migliorare ulteriormente
per raggiungere la forma ideale al momento giusto preparandomi
su due percorsi base: l'anello dei "quindici" e il tracciato
Domodossola-Crodo-Viceno-Smeglio-Domodossola.
Primo giorno
Il primo di agosto sono pronto a partire.
Il vento favorevole e il bel tempo promettono bene.
Esco di casa alle undici del mattino. Sto per affrontare
un'impresa che probabilmente supera le mie possibilità, ma ormai
sono in ballo. Aspetto questo momento da quando,
dopo tanti sforzi e anni di insuccesso, grazie alla pazienza di mio papà ho imparato ad andare in bicicletta.
E' un omaggio a questo sport generoso di infinite soddisfazioni, un viaggio alla ricerca di me stesso...
Secondo giorno
Al mattino mi sveglio in discrete condizioni, mi è tornata voglia di pedalare
e parto di buon umore nella frescura salmastra del nuovo giorno.
Terzo giorno
La mattina presto riprendo il cammino verso il prossimo paese.
Mentre il ciclista di Rosignano sistema freni e forcella
visito la spiaggia e mangio della frutta gironzolando per le vie.
Il terzo giorno di viaggio è un'accanita lotta contro il vento.
La strada si allarga in rettilinei interminabili: è uno dei tratti più
monotoni. Prendo una bibita ghiacciata e per un attimo mi sento male.
Dopo un centinaio di km arrivo a Grosseto. Giro per la città
senza meta bevendo ad ogni fontana. Il sole picchia che è un piacere,
mi sento uno straccio...
Quarto giorno
L'alba nel Lazio è particolare, uno spettacolo che merita
qualche minuto di contemplazione prima di infilare le scarpette nei puntali.
Percorro alcuni chilometri e ho la conferma di un presentimento:
un'altra foratura. Per fortuna in un provvidenziale casello trovo una pompa e un
po' d'acqua fresca.
Quinto giorno
Domenica 7 agosto, ore 10: è dura ripartire sotto il sole, riprendere
a maledire l'asfalto dialogando con la bicicletta.
Nei pressi di Napoli ritrovo il ritmo, la pedalata scandisce il tempo
come una musica sublime. Affronto le brevi
salitelle ormai in vista del millesimo km. da Domodossola. A Fuorigrotta
il fondo stradale è discreto, ma in città ho una sorpresa poco gradevole:
lastre di pietra malmesse, qua e là mancanti. Percorro la
galleria del Vomero a passo d'uomo nell'oscurità quasi completa.
Il lungomare è asfaltato per un paio di km, ma presto
la carreggiata riprende la sua vomitevole fisionomia.
Sesto giorno
Di buon mattino mi portano il caffè, un atto di
gentilezza che basta a ricaricarmi. Comincio subito il sesto giorno
in bici per guadagnare terreno prima che il sole sia alto.
Il primo tratto è in salita, piuttosto impegnativa fino a Vallo della
Lucania, poi meno ripida verso Montano Antilia, quota 750, la massima
raggiunta.
La strada prosegue a tornanti verso il fiume, poi risale a Torre Orsaia, dove
inizia la discesa verso il golfo di Policastro. Il percorso tra rocce
a picco sul mare concede panorami stupendi. L'azzurro del cielo,
la luce abbagliante del sole, l'asfalto rovente, creano un'indescrivibile
miscela.
Settimo giorno
Vado a recuperare la bicicletta, una veloce colazione, una preghiera
e ricomincio a pedalare. Fino a Pizzo Calabro la strada è pianeggiante,
una ventina di km in cerca del ritmo. Non sveglio del tutto,
ci pensano le salite a scrollarmi, dal mare a Vibo Valentia, oltre
500 metri di quota. Da Rosarno alla meta non dovrebbero mancare
più di 150 km, ma temo ancora di non farcela.
Mentre ripenso alla mia follia giungo sul lago d'Orta.
Da questo momento in poi non avrò più la spinta del vento.
Prima sosta a Borgomanero dopo 60 km. Fa già caldo, nonostante il maltempo
dei giorni scorsi. Risalgo in bici quasi subito e tiro fino a Novara.
La media è discreta, il fisico risponde bene ma è poco sorretto dalla volontà.
Nelle prime ore del pomeriggio passo per Vespolate, Mortara e
altri paesi della Lomellina.
Quasi all'improvviso mi trovo a Tortona (160 km).
Tutto sommato è ancora presto. Il buon senso dice di fermarmi,
anche perchè avevo fissato qui il termine della prima tappa.
Scambio due chiacchiere con qualcuno poi riparto. A Serravalle
Scrivia, dopo 180 km in pianura, comincia la salita, prima
leggera in falso piano, poi con qualche strappo deciso.
Attraverso i borghi dell'Appennino Ligure senza apprezzarne i tipici angoli.
La strada si arrampica fino al Passo dei Giovi. Al termine della salita sono esausto.
La distanza di 240 km in un giorno è il mio record.
Per sentirmi meno solo nel caos di Genova faccio due telefonate. "Tutto bene".
Sta diventando buio e devo preoccuparmi del letto. Sono fortunato
al primo tentativo: ospite in una casetta tra
la strada e il mare mi sento un re, sdraiato sul materasso
in un ripostiglio con la bicicletta accanto, ma la stanchezza
mi impedisce di prendere sonno.
Trascorre mezzora prima di uscire dalla città. Mentre mi abituo
all'aria di mare subito si ripresentano le salite, più impegnative
di quanto immaginassi. Mi fermo per riposare e fare colazione a Recco,
poi riprendo la serie di salite e discese fino a Chiavari.
Non riesco più a stare seduto e resisto poco "in piedi"
perché lo zaino sballottato mi solca la schiena.
Superata Sestri Levante mi arrampico verso il Passo del Bracco.
La strada si snoda inesorabile dal mare fino ai 615 metri di quota.
Qui la montagna ha un altro sapore, sento nostalgia delle mie montagne e la
salita sembra più dura.
Finisco la tavoletta di cioccolato dimenticando chi me l'ha regalata.
La discesa mi ridà coraggio. Anche la Liguria è passata, e sono
due regioni. In pianura mantengo una buona media. La gente
mi incoraggia e dopo ogni sosta riparto con una marcia in più.
Vedo in lontananza la torre e il Battistero di Pisa.
Ormai sono lanciato e preferisco rimandare la sosta di venti chilometri.
Interminabili. Dopo dieci ore sto ancora spingendo il 50-14.
In vista di Livorno rallento ad uno stop per leggere le indicazioni.
Freno per evitare un'auto ferma. La cordina del freno si spezza e vado a
sbattere. Catapultato sul tetto finisco in mezzo alla strada.
Sistemo lo zaino e controllo la bicicletta. A prima vista
sembra intatta. L'autista, una donna di mezza età, mi consiglia
il pronto soccorso. Purtroppo la bici ha un problema alla forcella.
Ho il morale a terra e penso di rinunciare dopo questo incidente.
Giro per la città in cerca di un meccanico senza la forza di chiedere
indicazioni. Proseguo per altri 10 km. fino
a Quercianella, poche case sul mare, una località di villeggiatura.
Mi fermo nelle due pizzerie per altrettante pizze e birre giganti.
Chiedo un posto per dormire, sono due risposte negative.
Telefono a casa: va sempre tutto bene! E' buio e la zona
non presenta alternative interessanti. Distendo il sacco a pelo in un prato
e mi infilo vestito tremando di paura per i rumori sospetti
tra i cespugli, poi raccolgo il sacco, le scarpe e la bicicletta
e scappo in strada.
I fari delle auto rompono il buio. Intravedo una casupola al di là di un muretto.
Sistemo la bici e mi addormento sul telo che copre la paglia. C'è giusto
lo spazio per me.
Una notte di incubi: a due metri l'Aurelia, a una decina la
ferrovia. I treni sfrecciano e anche i camion non fanno complimenti.
Tra un sussulto e l'altro nella capanna sento strani
rumori. Prego che questi momenti passino rapidamente
sperando in tempi migliori.
Senza rendermene conto riprendo la strada verso sud. Un paio di km e
la gomma posteriore è a terra. Torno in città e trovo un
meccanico che sostituisce la camera d'aria bucata sulla valvola.
La sosta forzata mi fa bene, ma mi domando se sia il caso di continuare
oppure cedere alla tentazione del treno. Mi riavvicino al mare poi procedo
verso l'interno.
Decido di portarmi il più avanti possibile.
Mangio qualcosa e continuo finché il fisico e lo spirito dicono
che è abbastanza.
Mi trovo dalle parti di Montalto di Castro, poco a nord di
Tarquinia, 116 km da Roma.
Ho percorso 190 km, record negativo, ma
la media, considerando il vento, è notevole.
Dormo in una cabina di legno dell'ANAS sul margine della via Aurelia. Ho
a disposizione un metro quadrato per stendere il sacco a pelo, un bottiglione
d'acqua offerto dal cantoniere e tanto sonno da dimenticare ogni scomodità.
A Civitavecchia dopo un'abbondante colazione e una visita al ciclista Belloni (il migliore
della zona, mi assicura un vigile) riprendo la via Aurelia costeggiando
il mare. Proseguo nel traffico sempre più intenso della superstrada
che incrocia il raccordo anulare a dieci km dalla capitale.
Il caldo diventa insopportabile, spingo sempre il massimo rapporto
sul saliscendi delle colline intorno a Roma fino all'imbocco
della strada Pontina. L'incubo dell'Aurelia è finito: 527 km da Genova a Roma.
In attesa di un meritato piatto di spaghetti parlo con i camerieri
che attorniano stupiti la mia bicicletta.
Sono quasi a metà strada, non esito a comunicarlo a casa.
La statale 148 mi è poco favorevole, in pratica una noiosa
autostrada battuta dal vento che soffia a raffiche dal mare.
Ad Aprilia entro in un bar come in un'oasi. Quando riparto il tavolino è coperto
di carta e bastoncini di ghiaccioli.
La strada ora è pianeggiante, un lungo rettilineo fino a Latina.
Osservo la posizione del sole sull'orizzonte: c'è tempo per tentare
di raggiungere Scauri in serata. Pedalo di buona lena nella zona del Circeo
e a Terracina vedo concretizzarsi la speranza di farcela.
I luoghi mi sono familiari: Sperlonga, uno dei paesi più caratteristici
con le case bianchissime arroccate sul mare, mi riporta indietro
di qualche anno. Oltrepasso Gaeta ed entro in Formia. A 10 km
dalla meta improvvisamente le gambe si rifiutano di girare. Bevo due lattine di
aranciata e anche questa crisi se ne va. E' uno dei più bei
tramonti vissuti, un insieme di sensazioni
apprezzabili solo in bicicletta al termine di una giornata che vale
260 km, mio nuovo record.
Una breve salita e un tuffo nel traffico
serale di Scauri per godere dopo quattro giorni di fatica il primo vero
momento magico.
A casa di Patrizia e Umberto trascorro due giorni di assoluto
riposo, alternando sane dormite e pranzi regolari ad ore di piacevole compagnia
in spiaggia e in discoteca.
E' mezzogiorno passato e c'è in giro poca gente. Anch'io vorrei
concedermi una sosta, ma preferisco digerire il più in fretta possibile
questa porcheria di strada che mi rovina la bici.
Oltre Napoli il ciottolame sconnesso, a tratti in cubetti di porfido
alternati a blocchi di materiale vulcanico, segue
per decine di chilometri l'interminabile successione di case, senza una
netta divisione tra un paese e l'altro.
Attraverso in pieno sole la zona più densamente popolata d'Italia.
La strada migliora a Pompei, salendo poi fino a Cava dei Tirreni
per ritrovare il mare a Vietri.
Dopo 140 sudatissimi chilometri ho tempo per coprire prima di sera
un'altra bella fetta d'Italia. Sul lungomare poco
prima di Paestum devo riparare un'altra foratura. Con le mani e la faccia
unte di grasso entro nel profondo sud: un continuo saliscendi di cento km
mi attende all'interno di una delle zone meno popolate.
Prima sosta a Ogliastro Cilento. Un paio di salite
seguite da discese pericolose e raggiungo Omignano. La strada è
bloccata. Procedo a piedi tra la folla intervenuta non per acclamare me
ma per la festa del paese.
E' tardi e proseguo fino a Vallo Stazione per tracorrere la notte.
Nell'unico albergo non c'è posto.
Quando poso la cornetta del telefono devo affrontare la scomoda realtà.
In stazione non trovo un posto decente. Rimane una speranza: la
caserma dei carabinieri. Più diffidenti che mai neppure loro mi vogliono.
Le persiane di un casolare di campagna lasciano filtrare un po' di luce. Dopo
aver bussato chiamo ad alta voce. Finalmente si affaccia un ragazzo
seguito dal padre. Mi trovano una sistemazione
su un comodo materasso in compagnia di conigli e galline. Sento
anche dei maiali nell'altro locale, ma l'importante è dormire,
sognare che forse tra due giorni è finita.
Faccio tappa a Sapri e a Maratea, ultima incantevole località prima di entrare
in Calabria.
A Praia prendo la superstrada panoramica. Mangio un chilo di fichi e
rischio di sentirmi male bevendo d'un fiato un'aranciata gelata.
Procedo senza tregua con il 50-14, sette metri e mezzo
ogni pedalata. Divoro chilometri come ciliegie, ma ho qualche sintomo di
indigestione. Soffia insistente il vento caldo del mare, lo zaino
penetra nella schiena e restano ancora 350 km.
La lunga salita che porta a Paola sarebbe il colpo di grazia se non avessi
qualche speranza, se non ci fosse qualche dolce sfumatura tra i pensieri.
Ho a disposizione un paio d'ore di sole e mi concedo un pisolino
all'ombra. Davanti ad uno specchio non mi riconosco più. Avrò
tempo per recuperare e assumere sembianze più normali per presentarmi al prossimo concerto.
Tra le montagne là in fondo lascio una parte di me, il mio cuore.
A Sant'Eufemia Lamezia si ripresenta il problema della notte.
Devo avere un aspetto disastroso: nemmeno in parrocchia si fidano di me,
ma mi prestano una coperta che servirà da cuscino. Almeno posso
lasciare la bicicletta al sicuro. Dirigendomi verso la stazione incontro
un gruppo di ragazzi in condizioni simili alla mia. Decidiamo di accamparci in un prato.
Mi offrono da mangiare e provo un po' di sollievo.
Cercando un posto più adatto percorriamo in lungo e in largo la stazione
finché ci vince la stanchezza.
Allora distendiamo i sacchi a pelo in fila, sul marciapiede del primo binario.
I passeggeri di ogni treno ci passano in rassegna inventando battute spiritose.
Riuscirò a dormire in tutto due o tre ore, troppo poche dopo una giornata di sole,
di vento, di mare e di vaghe sensazioni per 260 km.
A Gioia Tauro la strada sale di nuovo. Ormai le gambe girano solo per convinzione.
Devo rimanere sotto il getto di una fontana per riavermi dal caldo e riaccendere
i riflessi.
A Palmi trascuro un'indicazione e dopo aver attraversato inutilmente
il paese fino al mare mi tocca risalire al bivio.
Non è più la forza né la convinzione che mi fanno andare avanti, adesso è la rabbia.
Il sole è implacabile, gli tiro dietro tutti gli accidenti. Ancora uno strappo
di due km e la montagna finisce. E' il colle di Sant'Elia, al confine tra la
la terra e il cielo. Lo sforzo prolungato,
i sette giorni più sofferti, sicuramente tra i più autentici,
i chilometri e le ore interminabili, tutto mi gratifica di una sensazione che non ha prezzo.
Vedo la Sicilia: non può mancare una foto ricordo di
questo momento fantastico. Sfogo il mio entusiasmo malcelato lungo la strepitosa
discesa che riporta al mare.
La gente sui tornanti di Bagnara
sembra radunata per una festa. Stavolta il sole contribuisce ad un
incredibile scenario di colori e di vita.
Arrivo stremato all'imbarco di Villa San Giovanni. In attesa di salire sul
traghetto rispondo alle domande del solito gruppo di curiosi.
Attraversando lo stretto faccio il pieno di arancini e godo la brezza a prua.
Per il tratto finale scelgo un percorso tra
le montagne che mi permette di risparmiare una ventina di km. La pendenza tocca il 20%.
Nel primo pomeriggio sembra inevitabile una nuova crisi.
Quante ne ho già superate con oltre 1500 km alle spalle?
Guadagno Colle San Rizzo, i polsi mi fanno male e in discesa non riesco a frenare,
ma ormai vale la pena di resistere.
Cerco di ricompormi per i 40 km finali. Spingo regolare sui pedali
scivolando tra le case degli ultimi paesi.
Finalmente ecco la Rocca Salvatesta: sono tornato a casa.
Cinque del pomeriggio: arrivo nel silenzio, come quando ero partito.
Ammirando dalla spiaggia di Marinello la costa illuminata posso gustare
nella quiete serale del mare l'ultimo brivido offerto da questa straordinaria
esperienza.
Un'avventura indimenticabile, piena di fascino e di valore
estetico, perchè sotto il semplice gesto di ogni pedalata si cela un'opera d'arte...
"Solo, contro l'Italia, ho vinto"