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PASTORIZIA
IL GREGGE
Il gregge, in genere, è formato da pecore, montoni e agnelli.
Le pecore si distinguono in “srippi” (che non hanno fatto gli agnellini o che hanno un’eta’ inferiore ai due anni e quindi non possono ancora procreare e produrre latte) e “lattaò”, che procreano e producono il latte.
A Pasqua si mischiano le pecore srippi e gli agnelli. Se il terreno di pascolo è nei pressi di quello del gregge principale, il pastore che gestisce “a srippemmi” può nutrirsi con il latte del vicino gregge. Se, invece, il terreno di pascolo è lontano dal gregge principale, al pastore, toccano otto capre “cicci” per nutrirsi del loro latte. Anticamente, quando esistevano i lupi anche sui Nebrodi, al pastore toccava una nona capra ”ciccia” per poter nutrire il cane; mentre, quando il terreno di pascolo non era adatto alle capre, in luogo di queste ultime, gli venivano affidate otto pecore “cicci“ che, per distinguerle da quelle “srippi”, le marcava con delle strisce colorate sulla schiena.
Nel passato un gregge, costituito da circa cinquecento pecore, era dotato in genere di trenta montoni (“crasti”) che, un mese prima della monta, venivano separati dal gregge e condotti nei terreni “buoni”, cioè nei terreni dove c’era buona erba per cibarsi, chiamati “mizzegni” (terreni lasciati liberi dalla semina) e a maggio riportati nel gregge per la monta.
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre le pecore gravide figliavano; i figli di parti gemellari erano denominati “bizzò”.
I pastori, dopo circa venti giorni, macellavano la maggioranza degli agnellini e conducevano i restanti con le loro rispettive madri in un’altra zona del pascolo, dove, trascorsi circa due mesi, avveniva lo svezzamento: il pastore allontanava le pecore dagli agnellini riportandole nuovamente al gregge per la produzione del latte.
Una pecora in genere produce mediamente duecento grammi di latte e viene munta due volte al giorno: la sera, un’ora prima che faccia buio e la mattina, all’alba.
Nel mese di maggio la mungitura delle pecore avveniva verso le ore sedici ed invece di chiuderle nell’ovile si lasciavano fuori ancora a pascolare fino alla fine della giornata. Questo pascolo successivo alla mungitura si chiamava “parapasciu”.
IL FORMAGGIO E LA RICOTTA
Nell’estate (t’à stasgiò) si quagliava due volte al giorno (sera e mattino), mentre in inverno una sola volta al giorno (di mattino).
Il pastore mungeva le pecore “t’a scisca” stando seduto sopra “u cippu “, o “vadì “, che era un locale della mandria, ““ed appena la riempiva la portava “t’o pagliau” o “t’a casotta “, dove colava il latte, usando “u cuadò “, direttamente “t’à codà “che poneva alla fine della mungitura sopra la “furnacca” (fuoco).Il latte veniva portato ad una temperature di circa 35°-40°, quindi “a codà” si scendeva dal fuoco e si metteva “u cagliu”(omaso degli agnellini da latte), si mescolava “cu buzzuettu” e si copriva con una pelle di pecora “a pelli da codà”.- Dopo circa 15-20 minuti si toglieva la pelle e con “a brocca”, girandola ad una certa velacità si “rupia a quagliada” . A questo punto, pian piano, si aggiungeva “a cauda” (acqua calda avente una temperatura intorno agli 80° - 90°, cioè prima di bollire) per far coagulare le particelle di “Tuma”. Quando “a tuma” si separava dalla “lacciada” si poneva una “fascella” sopra il liquido e con maestria si facevano confluire le particelle di “tuma “sul fondo “da quadà“. Raccolta “a tuma” con una lama di legno, a forma di coltello, si tagliava in quattro parti e si trasferiva nelle “fascelle”, che a loro volta venivano poste sopra “u mastrellu”. A questo punto, la “tuma” si premeva con le mani e si bucherellava con un punteruolo di legno “puntaò” per fare uscire “a lacciada”.-
La “lacciada “si rimetteva sul fuoco ed ogni tanto si girava con il “rumiadò” fino ad una temperatura un po’ prima dell’ebolizione (la lacciada doveva fare la schiuma). Quindi si aggiungeva una “schisca “di latte (secondo la grandezza da quadà), che precedentemente era stata messa da parte, e si continuava a girare veloce in modo che eventuali particelle di “tuma “rimaste si depositassero sul fondo al centro “da quodà”.
Introducendo le mani si raccoglieva queste ultime particelle depositate (dette “u piusu”) e si poneva sul “mastrellu “. Si continuava a girare la lacciada per non farla attaccare sul fondo ed ogni tanto si guardava il liquido per vedere se si formavano piccole particelle solide (se si quagliava di sera il liquido si prendeva in un cucchiaio di osso (cucchiaiu d’ossu)fatto con le corna dei montoni “, che permetteva, guardandolo in controluce verso il fuoco, se vi fossero delle particelle solide. Se si quagliava di mattino, il liquido si prendeva “t’o buzzuettu “. Quando iniziavano a formarsi delle piccole particelle solide si versava “u rinfriscu”, acqua in cui venivano tenuti dei pezzettini di legno di fico nero legati tra loro, nonché i pezzettini stessi. Messa una “rema di frasca” sopra il fuoco, per aumentare d’intensità lo stesso, e quindi per far spuntare la ricotta, con il “buzzuettu” si iniziava a togliere la schiuma e qualche piccola impurità, dovuta al fumo ed al fuoco, e si toglieva “a quodà “dal fuoco. Il pastore che aveva le capacità di fare il formaggio e la ricotta si chiamava “zammatau “.Quando “u zammattau “metteva u rinfresco “t’a quodà “ripeteva questa poesia: Sentu rimunnu – ricotta zia u funnu – setti cannè – setti fascelli – pi tuttu u munnu.- Messa la ricotta t’è cannè si prendeva “a tuma, messa precedentemente t’è fascelli e si metteva nel siero “t’o seu “, con tutte le fascelle, per circa mezzora. Quindi si rimetteva sul mastrello e si faceva uscire il siero compremendola con le mani. La sera si toglieva la fascella e il formaggio si metteva a deposito (o sopra a tavua o sotto u jazzu) Accanto alle forme di formaggio si metteva “u piusu “, in modo che i topi mangiassero quest’ultimo, che si presentava un po’ soffice e sfuso, e non toccassero le forme di formaggio. La ricotta, invece, messa “t’a loggia” e portata via, dopo tre “jorni” “, dal “riccutau”. A “stirnada da roba” era il giorno che veniva “l’obblighenti “a ritirarsi a “roba”. Essa avveniva in genere ogni tre giorni, quando si quagliava sera e mattina e ogni sei giorni quando si quagliava una sola volta al giorno (ci volevano sei pezzi di formaggio) . Il conteggio veniva fatto “ca signa”.
CANNE'
(Contenitore per la ricotta fresca)
A Cannè è un contenitore di varie dimensioni ed è composta da due elementi fondamentali: “a cannè” e “u funnu da cannè”
A CANNE’ viene realizzata con canne spaccate e verghe di castagno o frassino questi ultimi usati sia per gli anelli esterni (i circhi da cannè) che per la “trema”.
Procedimento per la realizzare una cannè:
Si prende una canna secca, si taglia delle dimensioni volute (in genere da “gruppu a gruppu”) e si mette in acqua per circa 12 ore allo scopo di poterla meglio lavorare. La canna quindi viene “spaccata” in quattro spicchi (scherdi) e pulita nella parte interna con un coltello. Successivamente si preparava a “trema“ (piccola verga di castagno che dovrà passare all’interno dello spessore delle canne spaccate) e si bucano tutte le “scherde” nella parte centrale e in questi fori si fa passare a “trema”.
La parte inferiore della “scherda” è quella “cu gruppu da chenna”. Questa parte terminale, una volta passata “a trema”, viene raggruppata e ristretta con dello spago che più tardi sarà sostituito con il “circu da cannè” (verga intrecciata di legno di castagno).
“Te scherdi” che vanno a formare a “cannè” vengono praticati dei piccoli intagli tali da costituire dei forellini che servono per la fuoriuscita “du seu“.
U funnu da cannè viene realizzato con legno di pero o “durpu“ e viene appoggiato nella parte inferiore “di scherdi” dove si forma una piccola protuberanza dovuta “o gruppu di chenni”.- U funnu da cannè ha una forma circolare e si presenta con la superficie interna piana mentre quella esterna è tondeggiante; ha uno spessore che varia in base alla larghezza da cannè. Esso varia da uno spessore di circa mezzo centimetro nella parte esterna a contatto con i scherdi fino a uno spessore di un paio di centimetri al centro.
FASCELLA
(Contenitore per la ricotta fresca)
A “fascella” viene realizzata con il giunco (“juncu“) pianta cespugliosa che nelle nostre parti nasce spontaneamente dove vi è una presenza di acqua. La varietà usata oggi è diventata molto rara perché è del tipo pieno (e non vuoto internamente) e con le spine. Ecc.
(Carmelo Truscello)